La necessità di ritrovare paradigmi identitari oltre le dicotomie anglosassoni
L'agenda generale sarà noiosamente distorta sull’asse conservatore/progressista, fino alla completa sparizione di un modello sociale e culturale che definiremmo, molto semplicemente, civile
Come si esce dall’intellettualismo? Questa è una domanda che rode come un tarlo da parecchi anni. L’area di riferimento delle battaglie politiche che definiamo post-nuova-destra, sembra destinata, infatti, ad un eterno destino di Cassandra. Insomma, possiamo anche saper leggere managerialmente i numeri, la stagnazione trentennale di pil e salari, la sconfitta totale, in termini di produttività ad alto valore aggiunto, dell’Italia nella competizione globale. Poco importa. Resteremo casi isolati di malcelata lucidità, mentre l’agenda generale sarà noiosamente distorta sull’asse conservatore/progressista, fino alla completa sparizione di un modello sociale e culturale che definiremmo, molto semplicemente, civile.
Questa riflessione nasce dalle parole rubate a Massimo Fini durante una sua intervista a Radio 24: “Io sono un socialista, un libertario, ed un reazionario”.
Sintesi straordinaria che, per chi viene da certe letture, ricorderà le analisi sincretiche di Jean Thiriart. Ma che più realisticamente, racconta semplicemente di una Italia intellettuale cosciente di un proprio modello politico fatto di capitalismo di stato, piccola e media impresa, una cultura collettiva capace di tenere assieme ogni esigenza, alta e bassa, dell’umano.
È in buona sostanza una piattaforma politica basilare. Ma è pur sempre una piattaforma politica se paragonata all’ormai stantio marketing politico che vede Destra e Sinistra non più tanto facce della stessa medaglia, quanto piuttosto vanagloriose espressioni di meccanismi sportivi, hobbystici, di classi (non) dirigenti impegnate a vendere la propria adolescenziale inutilità, come filtro di maturo realismo politico.
L’uscita dall’intellettualismo verso una minima proposta politica, servirebbe poi a non cascare nell’iperproduttivismo editoriale, nella continua implementazione dei meccanismi sistemici (conservatori vs woke) grazie ai quali il modello anglosassone continua a reiterare se stesso trasformando oggi Giorgia Meloni in una nuova Thatcher ed Elly Schlein in una sorta di Ocasio-Cortez. Il che significherebbe anche essere diventati lettori-militanti non più timorosi dell’accusa ridicola di “velleitarismo”; ma gruppi di interessi consapevoli di poter costruire una realtà sociale non per forza fatta di darwinismo economico-sociale o di tecnocratica ridistribuzione della dinamica debitoria.
C’è poi, fuori da qui, cioè da uno spazio mediatico assai ristretto, un pezzo di mondo multipolare disposto a conflitti pesanti creduti dimenticati, pur di reificare questa alternativa; se oggi il solo livello di merci cinesi prodotte supera l’intero Pil (finanza merci e servizi) di Usa e Ue messi insieme, è chiaro che la costruzione dello Stato mondiale passerà per un conflitto non solo militare ma chiaramente antropologico nel suo insieme.
Che in Italia questo dibattito epocale non esista se non nei termini delle ossessive frasi funzionali (siamo fedeli all’alleanza atlantica) è qualcosa di raccapricciante. Soprattutto nel momento in cui le autocrazie tanto odiate mostrano la nascita di una strutturata nuova classe media tecnico-universitaria fedele al percorso dei regimi di riferimento.
In buona sostanza: ci stiamo accorgendo che si aveva ragione a parlare di sviluppo sostenibile del terzo mondo e non di blocchi navali; di nuove forme di economie programmate e non di voucher e turismo; di moneta moderna, piena occupazione e non di disoccupazione strutturale e deflazione salariale.
Queste ragioni non hanno trovato un percorso politico perché pareva che la Storia fosse realmente giunta al termine; forse sarebbe il caso di accorgersi anche qui, oltre cortina, che le cose stanno cambiando, si sono nuovamente messe in marcia.
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