Furono due le generazioni uscite dalla casa del padre a metà degli anni ’90. La prima, più matura, quella dei post-missini: concreti uomini politici. Gente col pelo. Gente dell’oggi. L’altra, più giovane: quella jungeriana. Anarchici, conservatori, comunitari, isolati nella ricerca del bosco, trascinati dalla corrente del trionfo elettorale.
Oggi i primi agonizzano, dopo trent’anni di gloria e successo. Gira la ruota. I secondi, forse, annaspano. Nonostante le spalle larghe, le sintesi culturali, l’anticipazione di tutti i temi caldi del nostro quotidiano: identità, tecnica, fine del pubblico, del rapporto con gli spazi, della storia come epopea collettiva, l’ammonimento contro il nichilismo trionfante. Gli jungeriani che si formarono a destra negli anni ’80 e 90’, ebbero il merito di anticipare tutto: dal fenomeno Lega al fusionismo post-novecentesco, trovando le chiavi di lettura vincenti per resistere alla morte della politica.
E tuttavia, ad oggi, nel momento in cui lo Stato mondiale (fra le opere più sconvolgenti di Junger) sembra gettare le sue più profonde e totalitarie radici (eh già, proprio così), nulla di nuovo sembra emergere a destra. L’ottimismo di un tempo lascia spazio alla rassegnazione: i Titani che il pensatore tedesco vedeva emergere dalla potenza della post-modernità non hanno né forma leggibile né quella libertaria traiettoria che gli anni ’60 del novecento lasciavano intravedere.
Di fronte alla dittatura dei Tecnici della Finanza soltanto il pensiero marxiano di Costanzo Preve sembra mantenere quella lucidità sfuggita alla nuova destra italiana: soltanto Preve, demolito il marxismo borghese di Vattimo e soci, cita alla mano de Benoist e il manifesto politico di Marine Le Pen. Dalle nostre parti calma piatta, come se il nichilismo tanto temuto, avesse vinto finalmente. Come se La Pace jungeriana avesse trasformato i titani del progresso nei demoni di un mondo in amministrazione controllata.