Il bello di “Le otto montagne” è che in molti passaggi del film sembra di star lì, di condividere i luoghi e le emozioni, in maniera semplice, essenziale, come solo chi conosce la montagna sa che può essere. “Le otto montagne” non è solo un film sulla montagna, così come non si pensa solo alla montagna quando si è in montagna. Vale per le Alpi, per la Val d’Aosta e per il Monte Rosa, ma potrebbe valere allo stesso modo per gli Appennini, per la Maiella e per l’Abruzzo. Aria rarefatta, pensieri rarefatti. E in salita non si parla, si ascoltano scomparire i pensieri del proprio io che si assottiglia, ci si riempie di vuoto. La montagna è il luogo del pensiero analogico, in un mondo che ci spinge sempre più al digitale. In montagna non si calcola, s’intuisce.
La percezione di questo vuoto, di questa essenzialità, dell’analogia, è inevitabilmente diversa tra chi la montagna la frequenta e chi la abita.
Tuttavia il protagonista del film è questo vuoto-pieno di silenzi con il quale tutti gli attori (e gli spettatori) si confrontano e confrontano le loro vite, le frustrazioni, i sogni, l’amicizia e l’amore.
Il monte Meru, o le otto montagne, Brusson o Pescasseroli, comunque un altrove rispetto alla vita banale nella quale ci siamo costretti a vivere. Enormemente più viva la vita di chi in montagna munge, fa il casaro, o di chi cerca un rifugio, rispetto a chi abita gli alveari della produzione coatta, rispetto a chi ha cercato un’alternativa cambiando luogo, senza cambiare visione.
L’importante è accendere la consapevolezza, anche attraverso eventi traumatici. Perché poi la domanda, giustamente mai posta in tutto il film, che dribbla la retorica meglio di Maradona, è quella più semplice: perché?
Perché restare a lavorare in montagna, nonostante le nuove regole, le tasse, la concorrenza, perché tornare in montagna, perché salire? Perché perdersi e ritrovarsi? Perché rischiare? Perché morire? La risposta mai data nel film, ma evidente come la neve sulle cime d’inverno, come in ogni attività in montagna, è semplicissima: la libertà. La libertà, quella vera. Una libertà talmente grande, fatta di rabbia e di riso, di lacrime e gioia, che confina con il sacro e che sconfina dall’ordinario, che accetta solo il vincolo aperto di un’amicizia, ma non quello di una famiglia, che ti può far anche morire assiderato, ma finalmente nel tuo luogo.
Oppure ti può riportare a valle cambiato e con la voglia di cambiare le cose, perché – come diceva uno che sull’analogia della montagna ci ha scritto un romanzo di avventure non euclidee e simbolicamente autentiche – “Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto”.
E comunque “Le otto montagne”, che siate montanari d’Alpi, d’Appennino o immaginari, è un film da vedere, assolutamente.