L’emergere e l’affermarsi del sovranismo, negli anni compresi tra il 2016 e il 2020, con il punto culminante della Brexit, hanno sollecitato una riflessione più approfondita sul tema dell’Europa e di come essa debba rapportarsi, se non integrarsi, rispetto alle singolarità nazionali senza perciò scadere in tutto ciò che di negativo ha rappresentato in questi ultimi 20 anni l’Unione Europea.
Gruppo di Vanenburg
Nel maggio del 2017 un gruppo di intellettuali europei, tra i più famosi dei quali ricordiamo Rémi Brague, Robert Spaemann e Roger Scruton, che si definì “Gruppo di Vanenburg”, ha redatto un “manifesto” di 36 punti titolato Un Europa in cui possiamo credere, un titolo che già implicitamente riconosceva la crisi dell’idea europea.
La recente guerra tra Russia e Ucraina, se da un lato ha acuito la crisi di questa idea, non fosse altro per l’inconsistenza diplomatica e politica dimostrata dall’Ue, dall’altro ha stimolato ad ulteriori riflessioni su come si possa evitare di “buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino” e salvare l’idea di una concertazione e di una più organica cooperazione delle nazioni e degli stati europei.
Alla prima stagione di questi studi, cioè quella compresa nell’arco temporale 2016 – 2020 e che ha raggiunto il suo “acme” con il Manifesto del Gruppo di Vanenburg, appartiene un breve saggio di Domenico Burzo, un giovane studioso lucano che ha al suo attivo diverse opere su filosofi europei contemporanei, quali Martin Heidegger, Romano Guardini, Walter Otto, e, ultimo tra tutti, un corposo studio dedicato alla filosofia religiosa di Pavel Florenskij dal titolo “La conversione di un uomo moderno. Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa” (Mimesi Edizioni 2020).
Il saggio in questione è un organico e articolato studio del 2016, pubblicato sulla rivista “Logoi.ph Journal of Philosophy” dal titolo “Il mito di Gige. Alle origini dell’identità europea”. L’autore, in sede di introduzione, sostiene che l’origine della crisi dell’Unione Europea, che rischia di trascinare verso un definitivo collasso anche la stessa idea di Europa, sta nel fatto che non ci si è mai occupati con rigore e dovizia di approfondimento del tema di cosa sia l’Europa e di cosa siano gli europei. Abbiamo pensato di poter tutto risolvere pensando solo al come far collaborare le varie nazioni europee per raggiungere l’obiettivo di una qualche forma di unità o unione europea. Vi è invece un problema di identità europea che va recuperata e a cui occorre dare una definizione. «Il problema, cioè, è la natura, la forma ‒ per dirla alla greca ‒ del nostro essere, di noi che non possiamo e non vogliamo fare a meno di essere europei. Un problema di identità.»
Non si tratta di una questione irrilevante o astratta, unicamente attinente al piano di quelle che Carlo Marx definiva “sovrastrutture”. Non è un caso, osserva Burzo, che sull’architrave del tempio di Delfi, quello che costituiva il centro religioso, il baricentro sacrale del mondo antico, era inciso il monito “Conosci te stesso” che suonava come un potente invito ad «affrontare la questione umana più importante per spendere bene la vita e realizzarla, realizzando sé stessi.» Ecco, l’Europa e gli europei, quando rifiutarono di porre nella costituzione europea il richiamo alle radici greche, romane ed ebraico-cristiane della identità europea, non obbedirono a questo monito e non diedero alcuna risposta a questo invito, a questo vero e proprio appello che ci veniva rivolto sin dalla più remota antichità.
Questa identità da ricercare e da definire non ha un esito statico, da intendere per sempre; è più che altro un processo dal carattere dinamico nel quale gli europei sono continuamente coinvolti e partecipi nello scorrere delle epoche e dei tempi. «L’Europa, già in noi, mai fatta e sempre da fare, è il testimone che di generazione in generazione può essere, se lo si sceglie, portato avanti.»
L’identità dall’antica Grecia
Il punto di inizio di questo processo di costruzione dell’identità europea sarebbe la Grecia del VI secolo, quella dello scontro con la civiltà persiana. Si situa in quell’epoca il momento in cui iniziano a coagularsi grumi di identità e dal quale prenderà avvio il processo cui ci si è prima riferiti. Perché è scelta quest’epoca? La resistenza rispetto ad una potenza asiatica ed orientale che vuole annettersi le polis greche stimola l’affermarsi di particolari elementi identitari che saranno alla base della civiltà europea. Secondo Burzo la ribellione delle polis greche ai persiani, con il culmine delle Termopili, non è solo il tentativo di non cedere al predominio economico persiano. Vi sarebbe invece un vero e proprio scontro tra due modi diversi di concepire l’uomo, tra due differenti antropologie. «Un incontro-scontro tra due popoli che rese necessaria per chi lo visse, una decisione esistenziale. Quindi, da un punto di vista culturale e ideale, che abbraccia e comprende qualsiasi altro punto di vista, da quello economico a quello giuridico.»
È la decisione di Leonida nel guidare i suoi trecento opliti alle Termopili. Egli voleva difendere, di fronte ad un potere apparentemente invincibile, quale quello degli imperatori persiani, che vedeva nei popoli e negli individui che vi erano assoggettati semplicemente dei sudditi che dovevano essere sempre pronti ad obbedirgli ciecamente, la civiltà delle polis greche, che era la civiltà greca, fondata su di «una polarità positiva tra individuo e comunità, tra libertà individuale e appartenenza sociale, per cui il cuore dell’esistenza umana nella polis è caratterizzato dalla libertà nella solidarietà. Cioè dalla libera condivisione di un ideale cui si è liberamente e ragionevolmente scelto di conformare la vita. Si è liberi nell’appartenenza alla polis, nella partecipazione libera e consapevole allo spazio umano in cui si forma e cresce (paideia), un preciso modo di essere uomo.»
Un esempio concreto di questa «polarità positiva tra individuo e comunità» è rappresentato dalle relazioni interne alla falange degli opliti, proprio durante le guerre persiane. Questi forti ed invincibili guerrieri erano provvisti di uno scudo a doppia impugnatura per fare in modo che ogni soldato con lo scudo, oltre a proteggere sé stesso, provvedesse a riparare dai dardi persiani anche il commilitone che gli stava accanto, in una sorta di applicazione bellica del principio della libertà nella solidarietà. «Per l’oplita abbandonare lo scudo è disertare il proprio posto nella falange, tradire la solidarietà su cui la struttura falangitica si fonda, rinunciare a coprire il compagno che marcia a fianco, schierato sulla stessa linea.» Quindi il valore della libertà nella solidarietà è una prima sequenza del DNA identitario dell’Europa, ereditata dal mondo e dalla civiltà greca in opposizione all’Oriente asiatico rappresentato dal mondo persiano.
Il mito di Gige
Cosa ha a che fare con ciò il mito di Gige? Quali le relazioni ed i nessi tra questo mito e questo primo elemento identitario europeo? Ci sono due versioni del mito di Gige, quella di Erodoto cui lo storico dell’antichità conferì anche una più solida base storica e quella di Platone. Entrambe le versioni rimandano ad un medesimo “nocciolo duro” di significato. Nella versione di Erodoto, Gige era il comandante della guardia del corpo di re Candaule della Lidia. Questi aveva una moglie bellissima, la cui bellezza splendeva tanto che il re volle mostrarla a Gige dandogli l’accesso alla stanza della regina mentre ella si spogliava. La regina si accorse di essere osservata e comprese che all’origine vi era stato un preciso disegno del re, suo marito. Per questo impose a Gige di scegliere tra la sua condanna a morte (reo di averla spiata di nascosto) e l’assassinio di Candaule per prenderne il posto. Gige scelse la seconda opzione.
Secondo la versione di Platone, contenuta nel secondo libro della Repubblica, Gige era un pastore al servizio del re di Lidia. Un giorno, per un’improvvisa tempesta, nel terreno del suo pascolo, si aprì una voragine. Gige volle discendere nella voragine e vi trovò un cavallo di bronzo che presentava delle fenditure. Attraverso queste feritoie Gige scorse il cadavere di un uomo nudo dalle dimensioni gigantesche. Quest’uomo aveva solo un anello al dito. Gige glie lo sfilò e scoprì che girando verso l’interno l’anello egli diventava invisibile. (È un’evidente fonte di ispirazione per la saga Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien). Con l’aiuto del misterioso potere di questo anello si recò a corte, sedusse la Regina, con il suo aiuto uccise il sovrano e si impadronì del regno.
Le due versioni hanno in comune la base storica di un vero re della Lidia ucciso ed usurpato da aspiranti rivali e il nesso tra regicidio e seduzione della regina. Per meglio comprendere il legame tra questo mito e il fondamento dell’identità greca della libertà nella solidarietà, è bene precisare, come del resto fa Domenico Burzo, che la Lidia si trova ad oriente e che «tra i primi sovrani orientali a muovere guerra ai Greci, prima di Ciro, troviamo proprio i re della Lidia. Creso e il suo antenato Gige che governò la Lidia nel VII sec. a.C.. In realtà si narra che Creso ebbe più fortuna dal momento che Gige non riuscì a sottomettere le città greche, fatta eccezione per Colofone.»
Sia il Gige di Erodoto che quello di Platone vedono nel potere, raggiunto attraverso la seduzione della regina o la magia dell’anello, uno strumento utile ad assoggettare persone ed individui quasi fossero oggetti. Lo stesso re Candaule, nella versione erodotea del mito, vede nella consorte una “cosa”, un oggetto prezioso da mettere in mostra, che nessun altro, come lui che è Re ed ha il massimo potere, è in grado di possedere ed esibire. «Quale bellezza va vantando con Gige? Evidentemente si tratta della bellezza del corpo; solo ed esclusivamente della bellezza fisica. La donna viene così considerata meno che persona e ridotta solo alla sua corporeità che viene trattata alla pari della materia di un oggetto.»
Il re usa la bellezza fisica della consorte per legittimare il suo potere nei confronti del sottoposto Gige, non ha fiducia che la sua guardia del corpo possa percepire la bellezza della regina come evidente di per sé, non ha fiducia che Gige lo creda nell’esaltazione della bellezza della regina e quindi possa nutrire fiducia nei suoi confronti ed essergli fedele anche in altre circostanze. Ciò ingenera un circolo vizioso per cui ognuno dei tre impone sull’altro e contro l’altro la propria volontà diffidando della reciproca fiducia e fedeltà. «È un triangolo tragico in cui tutti sono vittime, anche lo stesso Gige che sembra apparentemente trionfare. Chi potrà garantirgli di non fare la stessa fine di Candaule? Se è solo un bell’oggetto quello che ha conquistato con la forza, potrà sempre un giorno, per un motivo qualunque, perderlo. […] In questo triangolo tragico non c’è più nulla di umano né vi può essere alcuna bellezza. C’è spazio solo per la forza e il dominio che l’uomo esercita o si illude di esercitare sulle cose.»
Nel mito platonico la voragine che si apre nel terreno e attraverso la quale Gige vede il gigantesco cavallo di bronzo è l’apertura dell’Essere, uno squarcio che disvela le recondite profondità dell’Essere. Questa visione, come quella del cadavere nel ventre del cavallo, genera quella meraviglia e quello stupore che sono propri delle visioni sacrali. Se “sacro” però vuol dire “separato”, “distinto”, Gige non apprezza questa separazione e non si accontenta di questo primo sentimento di meraviglia. Tratta il cadavere come un oggetto (alla stessa stregua del corpo della regina consorte di Candaule) e ruba l’anello. Anche quando si accorge del potere magico dell’anello, egli prova grande meraviglia e stupore, ma non gli bastano e non esista ad usarlo per sedurre e impossessarsi (come fosse un oggetto) della moglie del suo sovrano, la regina.
Da Gige alla civiltà occidentale
Cosa ha a che vedere tutto ciò con l’Europa? «È evidente come siano rintracciabili nella vicenda di Gige tutte le più negative possibilità in cui noi europei siamo caduti e cadiamo. Nella figura di Gige è rintracciabile l’archetipo dell’uomo della civiltà occidentale nata dall’inautenticità della cultura moderna succube del potere della tecnica.[…] Nella vicenda di Gige scopriamo “l’inizio ‒ fondamento “ del volto oscuro della civiltà europea il cui tratto fondamentale sta nel continuo tentativo di trarre dalle cose, come da un cadavere, un anello per mezzo della scienza e della tecnica.» È la medesima riflessione che fa il filosofo polacco Stanislaw Grygiel quando afferma: «È in questo che consiste il materialismo della civiltà europea: in nulla e in nessuno essa vede una dignità sacrale. Anzi, spesso fa di questa l’oggetto di un gioco di forze. A forza di vedere dappertutto cadaveri, diventa totalitaria.»
Lungo questa china (testimoniata da tante cose accadute ed accadenti nell’Europa contemporanea: dagli ultimi conflitti mondiali alle norme contro-natura riguardanti l’antropologia naturale ed il gender, il fine vita e l’aborto, persino il cibo e l’alimentazione nonché l’affermarsi di un’ideologia transumanista che postula la commistione tra uomo e cyber) si giunge al contrario della libertà nella solidarietà, che aveva connotato la vita nella polis. Si perviene cioè alla libertà nella forza, intesa quest’ultima in maniera individualistica. Si é al punto di pensare che la lotta spietata tra individui che si contendono il potere possa terminare solo quando un solo uomo oppure una ristretta ed “illuminata” élite (come i “Dieci Controllori” del Mondo Nuovo di Huxley) concentra tutto il potere nelle proprie mani.
I Greci, secondo Domenico Burzo, hanno saputo sapientemente riconoscere (che vuol dire conoscere due volte) il valore della libertà nella solidarietà ed è grazie a questo riconoscimento che essi hanno potuto dare alla polis quella forma e quella forza che ha contaminato di sé l’Europa. In conclusione del suo stimolante e prezioso saggio, il filosofo lucano si chiede e ci chiede: «Potremmo mai, oggi, dimenticare tutto questo e continuare a dirci europei di fronte ai pericoli e alle crisi del nostro presente? […] Identità europea vuol dire non poter mai vivere al di là della propria coscienza, per cui se l’Europa vuole essere autenticamente sé stessa, non potrà essere altro se non lo sviluppo e la crescita di questo inizio, di questa risalita dal nascondiglio della decadenza, del potere e del possesso verso la chiarezza luminosa e infinita del logos.»