Marco Maculotti è un giovane studioso che si occupa di Tradizione, folklore, esoterismo e letteratura fantastica. I molteplici interessi lo hanno dotato di una non comune capacità esegetica, convenientemente esercitata nella lettura dei simboli, delle religioni e dei miti. La cosa la si evince dalla sua ultima fatica, da qualche tempo nelle librerie per Axis Mundi Edizioni, L’Angelo dell’Abisso. Apollo, Avalon, il mito polare e l’Apocalisse (pp. 383, euro 28,00). Il libro muove dalla condivisibile concezione che gli archetipi, compreso quello apollineo: «sono ancora vivi e vegeti, e aspettano solo di essere colti da chi sappia comprenderli e “svelarli” dalla patina storica con la quale sono stati così accuratamente offuscati» (p. VIII). Si tratta di un testo che, costruito tanto sull’analisi delle fonti antiche quanto sulla più accreditata letteratura critica, decostruisce il mito di un Apollo esclusivamente uranico, solare, prodotto tipico del neoclassicismo di Winckelmann e presenta un Apollo dal duplice volto, tanto solare, quanto ctonio.
Marcel Detienne, in uno studio ricordato da Maculotti, Apollo con il coltello in mano, ha sostenuto che il nome del dio rinvia al verbo apollunai, “far morire”, significato che, con tutta evidenza, è sintonico alla dimensione tellurica. Eliade aveva colto nel dio della Luce qualità ambigue e nient’affatto riconducibili al mero ordine del reale e all’armonia cosmica. La potestas apollinea, infatti, in Attica era collegata a Pan e alle Ninfe, portatrici, come ben sapeva Calasso, delle “acque mentali” atte a indurre mania. Le Sibille vivevano in antri sotterranei e in essi, visitate dal dio, vaticinavano. Maculotti, in sostanza, sostiene che Apollo è dio della coincidentia oppositorum, nella sua figura divina convissero la dimensione polare e il daimon sotterraneo: «Una doppiezza che, tuttavia, si risolve proprio comprendendo l’essenza di quella dimensione assiale di cui Apollo è epifania, quell’Iperborea dalla quale proviene» (p. 6).
L’autore rileva, inoltre, che il culto apollineo sorse in stretta connessione con la tradizione sciamanica nordasiatica. Per questo i suoi sacerdoti, gli Iatromanti, come attestato da copiosa e verificata letteratura, compivano viaggi “in spirito” e immersioni nell’Ade. Essi, il più delle volte: «vivevano e agivano da asceti solitarî, praticando una forma di religiosità che esulava nettamente dai riti e dai sacrificî su cui era imbastita la religione olimpica delle póleis» (p. 7). Sciamanesimo e culto apollineo trovarono una loro coerente elaborazione e sviluppo nella nascita della filosofia, stante la lezione di Colli e Tonelli. Il culto del Fuoco, così rilevante in Eraclito, rinvia al Fuoco-Luce quale arché che vive nei molti e dinamizza la physis. L’esperienza sciamanica è, del resto, presente in Empedocle. La sua morte, realizzata gettandosi nel cratere dell’Etna, rinvia a un’ascesi che si mostra solo successivamente alla pratica della “discesa agli inferi”. Molte le testimonianze inerenti i Sapienti che narrano di pratiche estatiche atte a separare l’anima dal corpo, mentre altre testimoniano delle loro capacità medico-taumaturgiche.
In una colonia milesia, nel 1973, è stata rinvenuta, ricorda il nostro autore, una lapide del III sec. a. C. su cui compare l’epiteto, attribuito ad Apollo, di Pholeuterios, termine che rinvia a “celare” ed è traducibile con “Signore della caverna”. Il culto apollineo, come la pratica estatica dei pitagorici, comprendeva la tecnica della incubatio che si svolgeva in cavità naturali, propiziante un alto grado di concentrazione e di rammemorazione. Nella filosofia presocratica confluì l’intero spere primigenio dell’Ellade arcaica tanto che: «Pitagora venne […] considerato una manifestazione dell’Apollo iperboreo, ipotesi che persino Aristotele reputò veritiera» (p. 45). La leggenda che meglio permette di aver contezza della relazione tra il filosofo e il dio si riferisce alla coscia d’oro del primo. Coscia in greco è méros, fonema immediatamente assonante con il monte Mêru della tradizione vedica, axis mundi legato alla simbologia polare propria di Apollo. Questi, nella sua funzione di daimon, nel suo legame con la dimensione tellurica, svolge il ruolo di mediatore tra mondo umano e divino, è simbolo anagogico trainante dal basso all’alto.
A Delfi, l’esistenza di un oracolo di Gea, insediato in loco prima di quello di Apollo, conferma la struttura ambivalente della potenza divina apollinea. Nel suo sopravvenire in tale località sacra, il dio della Luce non uccise il serpente Pitone ma la dragonessa Delfine, il cui nome significa “grembo”. La vittoria conseguita su Delfine è interpretabile quale trionfo del cosmos sul caos dell’origine. Da allora Pitone è sottomesso al lauro di Apollo e venne rappresentato attorcigliato all’ omphalós: «Apollo è potuto nascere solo nell’oscurità più densa, in quel buio che precede l’alba […] Si rivela solo ed esclusivamente in situazioni notturne […] simbolicamente […] infrauterine» (p. 109). Per questo, gli altri centri sacri ascrivibili al dio della Luce sono collocati su “abissi”, su “bocche infernali”, come quelli dedicati a San Michele, allineati sulla “Linea Sacra Michelita”. Lungo tale linea si trova l’isola di Patmos, inabissata e fatta sorgere a nuova vita, stando al mito, da Apollo e da Artemide (altra divinità legata alla Terra). L’isola atemporale corrisponde alla Sacra Terra polare, di cui narrano i miti iperborei e la tradizione graalica del Regno di Avalon (su questi aspetti, Maculotti intrattiene a lungo e con argomenti persuasivi il lettore).
A Patmos, san Giovanni Evangelista scrisse il “Libro della Rivelazione”. La liturgia cristiana sostiene che Giovanni avrebbe ricevuto la rivelazione dell’Apocalisse dall’Arcangelo Michele, una sorta di “doppio cristianizzato” di Apollo, a dire dell’autore. Tali coincidenze fanno pensare a una possibile continuità tra la mantica apollinea e quella apocalittica. In ogni caso Apollo, a dire di Maculotti è dio che annulla la distanza tra Terra e Cielo, almeno in quanti si lascino colpire: «dalla sua freccia e sappia(no) intendere l’Armonia cosmica insita nelle sette note ansimate dalla sua lira, facendo nascere nell’intimo abissale […] la capacità profetica» (p. 121).
Per noi che riteniamo che il principio si dia solo nei molti, che pensiamo la physis in termini sacrali, la parte più rilevante di questo studio va individuata nella demistificazione di Apollo quale dio solare. La sua duplicità rinvia, al contrario, all’arché quale coincidentia oppositorum, in cui si danno in uno maschile e femminile.