Uno dei temi forti dell’ecologismo è il cosiddetto consumo critico, ovvero il fare attenzione a ciò che mangiamo. Vediamo cosa scrive l’ecologista e poeta-contadino Wendell Berry, che ha dedicato a questo tema vari saggi e articoli confluiti poi nel volume Mangiare è un atto agricolo (Lindau, 2015): «Chi mangia deve rendersi conto che l’atto del mangiare non può che aver luogo nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangia determina in misura rilevante l’utilizzo che facciamo del mondo».
Il consumo critico si traduce in consumare e acquistare meno e meglio. Informarsi sul cibo che compriamo e sulle tecniche di produzione alimentare, acquistare prodotti a km 0, consumare frutta di stagione, prepararsi da sé il cibo, bere acqua dal rubinetto (magari utilizzando filtri) anziché in bottiglie di plastica usa e getta, sono tutte azioni che denotano un mangiare responsabile.
Il sistema industriale, attraverso la pubblicità che persuade i consumatori che il cibo, prodotto con qualsiasi mezzo consenta di aumentare i profitti, è buono e salutare, tende in realtà a tutti noi una trappola, è come «una città circondata da mura che lasciano passare le merci ma bloccano le coscienze». Nell’industria alimentare, come in qualsiasi altra industria, sottolinea Berry, «la preoccupazione principale non è la qualità e la salute, ma la quantità e il prezzo (…). Nel momento in cui il capitale sostituisce il lavoro, macchine, farmaci e sostanze chimiche prendono il posto dei lavoratori e della salute e fertilità naturale del suolo».
È quello che tristemente accade negli allevamenti intensivi e nelle monoculture. Le persone si sono trasformate a poco a poco in consumatori passivi, acritici, succubi: «comprano ciò che desiderano, o che sono state convinte a desiderare, nei limiti di ciò che hanno a disposizione. Pagano il prezzo richiesto, di solito senza protestare. E di solito ignorano alcune domande critiche riguardanti la qualità e il costo di ciò che comprano. Quant’è fresco quell’alimento? Fino a che punto è puro e privo di sostanze chimiche nocive? Quanti chilometri ha percorso dal luogo di produzione, e quanto incide il trasporto sul prezzo finale? Quanto incidono i costi dei processi di lavorazione, confezionamento e pubblicità? Quando è stato prodotto, lavorato o precotto quell’alimento? E fino a che punto tali procedimenti ne hanno alterato qualità, prezzo e valore nutritivo?».
Quel che il consumatore di solito ignora è il nesso esistente tra la terra e l’atto del mangiare. Berry punta il dito contro la colpevole disattenzione di ciascuno di noi e riassume le sue tesi asserendo che mangiare è un atto agricolo, cioè l’atto conclusivo dell’economia agricola, che inizia con la semina e con la nascita. «Mangiare in modo responsabile significa essere liberi», afferma con forza.
Naturalmente l’industria alimentare «ha ottime ragioni per cercare di occultare il nesso tra agricoltura e cibo. Non si rende certo un gran servizio al consumatore informandolo che l’hamburger che mangia proviene da un manzo che ha passato gran parte della sua esistenza chiuso in un recinto, immerso nei propri escrementi a inquinare i fiumi della zona, oppure che il vitello all’origine della cotoletta che vede nel piatto ha passato la vita in un box talmente angusto da non permettergli neppure di voltarsi. E anche (…) gli ortaggi prodotti dalle grandi monoculture necessitano di prodotti chimici tossici, esattamente come gli animali segregati negli allevamenti intensivi necessitano di antibiotici e altri farmaci».
In L’uomo, l’ambiente e se stesso l’ecologista italiano Rutilio Sermonti (per tanti versi affine a Berry), a proposito degli additivi usati dall’industria alimentare, ci informa che l’americano medio ingurgita in un anno circa sette chili di sostanze chimiche non nutritive e potenzialmente nocive.
Per questo consumare in modo responsabile significa affermare la propria libertà sul piano etico-politico ed estetico di fronte alle prevaricazioni dell’industria alimentare. Ma è alla fine anche una questione di buon gusto. Una vecchia pubblicità diceva: «il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?». Ecco, questa domanda vale per qualunque cibo.
Così conclude Berry la sua riflessione: «Mangiare con il più ampio piacere possibile (…) è forse la realizzazione più profonda del nostro legame con il mondo. In questo piacere sperimentiamo e celebriamo il nostro debito e la nostra gratitudine, perché la nostra vita nasce dal mistero, da creature che non abbiamo creato e da forze che non sappiamo comprendere».
Tutto un po’ campato in aria, per l’uomo della strada, almeno. L’essere comune oggi va a comprare al supermercato e compra quello che gli propongono, come lo propongono. L’acqua del rubinetto sarebbe ottima, ma in generale ha un sapore ed odore di cloro ripugnante. Poi è tutto teorico bla-bla su di un mondo teoricamente sano, virtuoso, ma di fatto inesistente… Fra un po’, se dura la guerra sciagurata, ci dovremmo preoccupare seriamente della carenza di cibo, non del consumismo…
Il cibo venduto come organico o è un falso o è un prodotto a forte rischio epatite virale…
Caro Guidobono, mi auguro che voi leggiate le etichette dei cibi al supermercato, forse trovate commestibili e desiderabili prodotti con farina di grillo o infarciti di glisofato, di aromatizzanti e conservanti?
Farina di grillo dove io vivo (Uruguay) non c’è e non ci sarà! Ma anche qui il pollo lo compri al supermercato, non gli tiri il collo, lo spenni, togli le interiora ecc. I conservanti non sono il meglio, lo so bene, ma tutto fresco è un’utopia. Quando ero bambino il pane comprato il mattino era già raffermo alle 4 del pomeriggio! Ecc. ecc. Forse mia figlia che lavora ed ha due bambine piccole potrebbe fare la vita (e la routine degli acquisti) di mia madre casalinga? Tutto non si può avere e, in ogni caso, la durata media della vita di oggi è assai maggiore a quella di un tempo, con meno polveri… Il nostro corpo si è abituato…
Non so perché, ma i cibi “verdi”, “organici”, “bio” e via dicendo oggi costano molto più cari e non sempre esiste un serio controllo sulla loro qualità. Spesso a certificarla sono società che sono pagate per controllarle dalle stesse aziende agricole: ma il controllante non può controllare il controllato, per ovvi motivi (questo è uno dei problemi fondamentali della democrazia, per altro). A Viareggio si racconta ancora la storia di un’ortolana che comprava a vil prezzo la frutta più brutta e malconcia e poi la vendeva a prezzo triplicato al suo banco: in genere di solito la frutta o verdura bio è più brutta perché dovrebbe essere meno trattata. Se ne accorsero, ma tardi.
L’uomo in realtà era riuscito a vivere al riparo dalle tre grandi dannazioni medievali: la guerra, la peste (ovvero le epidemie) e la fame. Siamo riusciti a inventarci una guerra che comporta un enorme spreco di risorse, che prima o poi dovremo pagare (Zelenski presenterà il conto, e nessun ufficiale giudiziario oserà presentarsi al Cremlino). Abbiamo inventato in laboratorio un’epidemia dall’origine incerta, che però è servita per un’enorme prova d’orchestra sulla soppressione delle libertà individuali, ora stiamo ponendo le premesse per una carestia globalizzata proprio quando i progressi dell’agricoltura industrializzata avevano affrancato il mondo civilizzato dalla fame (e avrebbero affrancato anche il terzo mondo se non fosse stato per la corruzione delle classi dirigenti post-decolonizzazione).
Sono d’accordo comunque sul fatto che sia meglio comprare frutta e verdura di stagione, e magari preferibilmente locali, ma se ho bisogno di limoni e in certe stagioni i limoni italiani costano carissimi piuttosto che pagare a caro prezzo quelli “nostrani” preferisco comprarli di altri continenti. Da ottobre a maggio invece non compro proprio pomodori: sono cari e di serra, un po’ aciduli. Preferisco se ne ho voglia comprarne un succo o comprare la passata per il sugo. Un serio problema riguarda invece la carne. Che gli allevamenti di animali siano dei feroci lager è indubbio (ricordo le descrizioni di un romanzo del grande Houellberk). Ma qui si pone un problema che non è solo sanitario, ma etico.