Ernst Jünger è una figura rappresentativa del sentimento che anima buona parte del Novecento di rifiuto verso il mondo industrializzato delle società moderne. I suoi romanzi portano inevitabilmente il segno di ciò e rivendicano degli spazi di libertà assoluti. I romanzi di Jünger sono terra di confine per i lettori più impavidi. In Heliopolis (1949) collassa il sottile limite che divide l’empirico dal fantastico e viene definitivamente sfondata la “quarta parete”. Al suo interno dobbiamo riconoscere l’esistenza di uno stile penetrante che aggiunge allo sviluppo diacronico, proprio della narrativa speculativa, escursioni filosofiche ed incursioni nel regno della metafisica. Il “reale” viene riconsiderato sotto una nuova luce e determinato in funzione della sua capacità evocativa: il “meraviglioso” ritrova un posto nell’universo. Già in Foglie e pietre (1934) possiamo trovare un utile chiave di lettura dei romanzi jungeriani: «Il meraviglioso non suscita in noi nessuna sorpresa, perché il meraviglioso è ciò con cui abbiamo la più profonda confidenza» (p. 42). In Jünger c’è la convinzione che l’ordine (cosmos) sia dato all’uomo nel momento del suo svelamento, ovvero dal rendersi manifesto dell’assoluto. Il diaframma della realtà si apre tanto da poter comprendere al suo interno ogni cosa. È reale ciò che l’uomo è capace di evocare; è così che Heliopolis compare sulle mappe dell’atlante.
Non è utopia
Heliopolis non è un’utopia, quindi, ma la descrizione di un mondo possibile. Un mondo che Jünger suggerisce di vivere «come un pescatore spirituale, gettando la rete negli abissi del mare pieno di tesori» (p. 68). Un mondo dove «anche se nessuno di questi misteri venisse mai rivelato si sarebbe ugualmente soddisfatti» (Ibidem). Un mondo diverso dal nostro, insomma, che si sarebbe potuto formare da leggerissime deviazioni, sufficienti a renderlo dissimile in certi aspetti essenziali. Nel primo capitolo del romanzo, il consigliere minerario dice a Lucius de Geer, il protagonista, che l’universo è come un diamante tagliato in un certo mondo, uno solo tra gli infiniti tagli possibili. Ebbene, Heliopolis è un cristallo con un taglio diversamente inclinato rispetto al nostro. Merito di Jünger è di aver mostrato il meglio non come utopia, ma come possibilità; i mali permangono nello Stato di Heliopolis, ma le scelte degli uomini sono leggermente più sagge, quanto basta per essere immensamente diverse.
La contrapposizione dei valori
Un tema importante di tutto il romanzo è la contrapposizione dei valori. Jünger elabora i propri giudizi di valore non in senso moralistico, ma in quello etico. La tendenza di Jünger a fare dei suoi protagonisti dei veri e propri i modelli archetipici, costringe la più attenta critica letteraria a non esaurire i suoi scritti sotto il segno del “romanzo fantascientifico”. La dimensione verso cui si muove l’anarca di Heidelberg non è tanto nella valutazione di un determinato ordine – che comunque è presente massicciamente, beninteso – quanto nell’apprezzamento di tutto ciò che potrebbe rendere visibile l’ordine stesso. Bene è ciò che è predisposto a rivelare le più svariate possibilità dell’assoluto, male è l’appiattimento, l’omologazione al senso comune dell’esistenza.
Il mondo contro cui si scaglia Jünger è quello della degenerazione liberale – assunta come “offuscamento dello spirito” più che nella sua declinazione sociale, un mondo che ha da tempo sostituito la disciplina interiore con la produzione, la conoscenza con l’efficienza, col risultato di essere dominato sempre più dalla forza spiccia della massificazione. In Heliopolis è forte la critica ad una borghesia vista come disvalore, pavida nel suo fermarsi a metà strada, al costruirsi sull’interesse. Jünger comprese presto che il vivere borghese tende alla distruzione di un concetto prezioso, quello di “responsabilità”, e mira a creare intorno a ciascun uomo un muro protettivo di assicurazioni, cautele. Opera del borghese, infatti, è la distruzione degli stili, nonché la progressiva erosione dei segni che distinguono le gerarchie di qualità.
Rinascita della dimensione del “meraviglioso”, l’universo come potenza evocativa dell’uomo, critica al disvalore, tutto ciò viene proiettato nelle pagine di Heliopolis.
A Heliopolis, città immensa e splendida circondata da antiche rovine, da spazi deserti e distese d’acqua, vengono riprodotti gli stessi contrasti e le stesse aspirazioni del nostro universo. Esistono una scienza e una tecnica avanzate, ma vi è anche una forte presenza metafisica. La lotta degli opposti assume toni forti – ma mai mutualmente escludentesi. A Heliopolis esistono forze e tendenze capaci di ricostruire ciò che è stato distrutto, recuperare ciò che è stato perduto. La popolazione di Heliopolis è eterogenea: nello Stato coesistono un demos adulato da demagoghi e i solitari figli della Terra dei Castelli – ai quali appartiene il pensoso protagonista.
In Heliopolis «il culto della velocità è in decadenza, e le modernissime navi dalla linea dinamica sono state abbandonate per ritornare a vascelli più lenti e più adatti alle misure dell’uomo; i mezzi di trasporto pubblico rallentano la corsa e fanno soste non comprese nell’orario ufficiale se i viaggiatori non desiderano arrivare troppo presto; il pubblico amante delle belle arti rifiuta recisamente i musei come istituzione, e si oppone a che le chiese vengano trasformate in gallerie d’arte» (p. 8). Tuttavia, l’equilibrio stabilito dalla figura del Principe – autorità unica, inaccessibile che quasi mai compare nel romanzo – è ridiscusso tra due fazioni politiche.
Nella città di Heliopolis si fronteggiano due Poteri: quello del Potestà e quello del Proconsole. Il Podestà «cercava di degradare gli scienziati a impiegati, a tecnici e persino a falsari» (p. 74) e dirigeva la stampa al fine di dominare le masse nel terrore e affermare la superiorità del potere. I suoi scagnozzi, ci dice Lucius, lavoravano con sagacia per poter giustificare logicamente l’omologazione e la burocratizzazione dell’esistente, accettano la ricerca e la scienza solo se a servizio dei fini proposti. All’opposto, il Proconsole. Dall’ultimo piano del suo palazzo, “La voliera”, si fa portavoce delle istanze aristocratiche dove la dimensione della verticalità si propone come comune denominatore tra la teologia e le scienze positive. I suoi accademici, a differenza degli uomini del Podestà, sono più propensi ad esplorare le aree appena scoperte oltre le Esperidi – simbolicamente rappresentati l’ignoto – solo per amore di una migliore conoscenza.
Insomma, Heliopolis è un luogo di ristoro, di beffarda consapevolezza del presente, di lotta e di scorci metafisici sul possibile e sul magnifico. Una cura per pochi, un veleno per molti. La storia di Lucius è l’illuminazione graduale di chi capisce come la lotta tra le forze politiche, storiche e ideologico sia la superficie di un livello più profondo e spirituale. Heliopolis evoca scenari clamorosi, indica una sintesi di raffinata pregevolezza in cui fantastico e possibile si fecondano in pieno stile jungeriano.
*Recensione del romanzo di E. Jünger, Heliopolis, Rusconi, Milano 1972