“Tutti i medici sono pregati di recarsi immediatamente all’ospedale civile. Catanzaresi, una grave sciagura si è abbattuta sulla nostra popolazione. Chi è disposto a versare il proprio sangue per soccorrere dei fratelli gravemente feriti si rechi immediatamente all’ospedale cittadino“. E’ un annuncio drammatico quello lanciato, poco dopo le 8.30 di sabato 23 dicembre 1961, dagli altoparlanti di un’auto che fa il giro di Catanzaro. Gli abitanti della città dei tre colli, che a quell’ora sono abituati a sentire la novena di Natale intonata dagli zampognari, non sanno ancora cosa sia successo. La voce, però, si spande a macchia d’olio e nel giro di pochi minuti si diffonde la notizia di un treno precipitato da un ponte. Le informazioni sono frammentarie, qualcuno parla di “due, forse cinque morti”, altri, più pessimisti, si spingono a dire: “sono morti tutti”. Nella speranza di saperne di più, molti tralasciano le loro incombenze per accorrere alla stazione ferroviaria dove, poco prima delle 8, è arrivata la notizia del disastro – destinato, nel volgere di poche ore, a diventare uno dei più gravi della storia d’Italia. Latore del funereo annuncio è stato il macchinista della littorina At2/123, dalla quale una manciata di minuti prima si è sganciata la carrozza precipitata nel torrente “Fiumarella”.
Il viaggio
Per capire cosa sia accaduto, occorre riavvolgere il nastro e andare a Soveria Mannelli da dove il treno era partito. La mattinata è fredda, piove, assiepati sulla banchina ci sono studenti, operai, braccianti, impiegati e casalinghe che non vedono l’ora di salire sul treno diretto a Catanzaro, per mettersi seduti, magari per un fugace supplemento di sonno, per ripassare la lezione o semplicemente per chiacchierare con il vicino di posto. I passeggeri, il cui pensiero è rivolto alle imminenti festività natalizie, occupano quindi le due carrozze che compongono il convoglio. Alle 6.43, con cronometrica puntualità, l’automotrice Breda M2.123 produce il classico strappo d’abbrivio e con al seguito il rimorchio Breda RA 1006, inizia la consueta corsa su quella che, vista da lontano, sembra una ferrovia da modellismo. La tratta, gestita dalla Società italiana per le strade ferrate del Mediterraneo, concessionaria delle Calabro Lucane, è infatti una linea non elettrificata, a binario unico e scartamento ridotto, sulla quale viaggiano treni lillipuziani. Un quarto d’ora dopo, la littorina entra nella stazione di Decollatura, dove salgono a bordo altri studenti, lavoratori e massaie. Le donne, molto più numerose del solito, sono dirette al mercato settimanale di Catanzaro per le ultime compre prima della Vigilia. La scena si ripete anche a San Pietro Apostolo e negli scali successivi.
Quando il treno lascia la stazione di Gagliano, l’ultima prima di arrivare a destinazione, a bordo ci sono 220 passeggeri. Il viaggio procede apparentemente senza intoppi. Alle 7.40, cinque minuti prima del capolinea, il convoglio imbocca una galleria e inizia a percorrere gli ultimi due chilometri. I passeggeri, si stanno preparando per la discesa ormai imminente, quanto, alle 7.41, il treno affronta l’ultima curva sul ponte che attraversa il torrente Fimarella. All’improvviso la vettura di coda piega a sinistra, il gancio che la tiene ancorata alla motrice si spezza, e finisce contro il parapetto che non regge l’urto. La rapida sequenza dell’accaduto non dà il tempo ai passeggeri di capire cosa stia succedendo. Nel volgere di un manciata di secondi “la carrozza conclude la corsa sui binari e inizia quella fatale nel vuoto”. Il vagone ruota su se stesso e dopo un salto di 47 metri si schianta con la parte posteriore nel greto del torrente.
L’impatto
L’impatto è devastante: le lamiere si accartocciano, i passeggeri si ritrovano gli uni su gli altri, imprigionati in quella che la stampa dell’epoca definirà la “dannata gabbia”. Nel frattempo, la carrozza di testa si arresta sul ponte. Il macchinista scende sui binari e si rende conto del disastro. Passano pochi secondi e alcuni viaggiatori lasciano la motrice e si precipitano giù per la scarpata, nel disperato tentativo di prestare i primi soccorsi. Nel frattempo, il macchinista si rimette ai comandi e si dirige a Catanzaro. I soccorsi scattano immediatamente. Nonostante il luogo della sciagura sia irraggiungibile dalle strade carrabili, alle 8.30 vigili del fuoco, soldati del 48° fanteria ‘Sila’, polizia, carabinieri, infermieri e personale ferroviario sono già all’opera. I soccorritori arrivano in treno, scendono sul viadotto e corrono lungo la scarpata. Lo scenario è straziante: “dalle lamiere” escono “grida disperate di feriti[e] deboli lamenti di moribondi”. I vigili del fuoco, con foga quasi rabbiosa, si scagliano contro la “dannata gabbia” e azionano la fiamma ossiacetilenica per districare il groviglio di lamiere. “Per primi – scrive La Stampa del 24 dicembre 1961 – sono stati estratti i feriti: i medici hanno curato sommariamente i casi più gravi, sono state fatte alcune trasfusioni di sangue […] quindi gli infortunati”, una volta portati a Catanzaro in treno, vengono trasferiti con le ambulanze negli ospedali civile e militare. Man mano che la notizia si diffonde, alcuni curiosi si avviano lungo la strada ferrata e raggiungono a piedi il luogo della sciagura, dove assistono alle scene strazianti dei cadaveri allineati per terra o “lungo i binari”.
Il bilancio della sciagura
Con il trascorrere delle ore, la triste schiera si allunga inesorabilmente. Alle 11.35, le vittime accertate sono già 36. Il lavoro frenetico dei soccorritori va avanti senza sosta fino alle 15.30, quando dalla carrozza viene estratto l’ultimo corpo senza vita. Il bilancio, pesantissimo, parla di 69 morti e 30 feriti. “La gran parte delle vittime”, scriverà la Gazzetta del sud del 24 dicembre 1961, “erano studenti delle scuole superiori che quella mattina immaginavano di assaporare il momento in cui i professori avrebbero annunciato le vacanza natalizia[…]contadini che andavano a render omaggio ai loro padroni[…]. Donne che avevano intenzione di recarsi in città per acquistare gli ultimi ninnoli da appender all’albero o per completare il quadro del presepe”. Nel frattempo, una volta identificati, 46 cadaveri vengono traslati nella chiesa di San Giovanni, a Catanzaro. Durante la giornata non mancano i momenti di tensione, con “la forza pubblica costretta a usare metodi forti per impedire l’assalto alle salme allineate nelle navate”. La sera stessa – poiché la liturgia non consente di officiare cerimonie funebri nei giorni di festa – l’arcivescovo Armando Fares celebra la funzione e durante la notte le bare vengono avviate con automezzi militari verso i paesi d’origine. Nei giorni successivi il bilancio si aggrava ulteriormente. Il giorno di Santo Stefano, infatti, muore un contadino cinquantenne, padre di dieci figli. Alle 11.02 del 29 dicembre, all’ospedale militare, si spegne la settantunesima e ultima vittima della tragedia: uno studente di 17 anni.
La causa
Fin dalle ore immediatamente successive, la causa della strage viene individuata nell’eccessiva velocità. Il treno, infatti, avrebbe imboccato la curva a 63 chilometri orari, una velocità quasi doppia rispetto ai 35 prescritti. Ovviamente, nell’occhio del ciclone finisce la società che gestisce la tratta. Nei centri maggiormente colpiti dalla tragedia la reazione è rabbiosa. Il 27 dicembre alcune stazioni attraversate dal treno della morte vengono prese d’assalto dai manifestanti. La più grave si registra a Soveria Mannelli dove – riporta l’edizione del Corriere della Sera del 28 dicembre 1961 – “Giunti davanti al piccolo edificio (della stazionendr) la loro furia è esplosa: i manifestanti hanno divelto le porte e gli infissi, hanno sfasciato i mobili, e ammucchiato il tutto sui binari dando fuoco sia alle suppellettili sia ad alcuni pali telefonici che nel frattempo erano stati abbattuti”. Per cercare di fare chiarezza, nell’attesa dell’istituzione di una commissione d’inchiesta, la Società italiana per le strade ferrate del Mediterraneo rilascia un comunicato con il quale, il 2 gennaio 1962, sulle colonne della Gazzetta del sud, chiarisce che le “condizioni della sede ferroviaria e dell’armamento nel tratto in cui si verificò il disastro sono in perfette condizioni” e che “le due vetture erano entrate in funzione nel 1952 ed erano state regolarmente revisionate ad aprile 1961”. Il comunicato, poi, mette l’accento sull’eccessiva velocità che “in quel punto non doveva superare 40 km orari, mentre la velocità registrata dalla zona tachigrafica è risultata superiore ai 60 Km orari”. La nota, con tutta evidenza, va nella direzione dei primi risultati dell’inchiesta condotta dal procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello, Luigi Ammirati che fin da subito aveva focalizzato l’attenzione sul macchinista Ciro Miceli, il quale, nell’aprile del 1966, verrà “riconosciuto colpevole di disastro ferroviario e omicidio colposo e [in seguito alla fuga in Germania Orientale] condannato in contumacia dal Tribunale di Catanzaro a dieci anni di reclusione”.
Cala il silenzio
All’indomani della tragedia, il governo revocò la concessione alla Mediterranea Calabro Lucane, sostituendo i collegamenti ferroviari tra Soveria Mannelli e Catanzaro con il trasporto su gomma. Come spesso capita a quelle latitudini, nonostante la sua entità, la tragedia venne ben presto derubricata. A pronunciare parole di sdegno, per il distacco con cui la strage fu trattata fin dai primi giorni, sarà il giornalista Mino Monicelli che, sull’Europeo del 14 gennaio 1962, scriverà: “[….] questa catastrofe calabrese che ha avuto il torto di accadere alla vigilia delle feste e in contrade avvolte nel silenzio e in un oblio di secoli, più remote del Congo. Nel Congo morirono, un paio di mesi fa, tredici aviatori italiani; e subito il ministro della Difesa partì per Leopoldoville, a chiedere giustizia; e subito la Tv lanciò la ‘catena della fraternità’, che raccolse 170 milioni di offerte. L’antivigilia di Natale sono morte alla porte di Catanzaro, settantuno calabresi, studenti, operai, contadini. Nessuna ‘catena della fraternità’ per loro. Nessun ministro si è mosso da Roma per loro. Zaccagnini, ministro dei Lavori pubblici, è corso a Rimini per i tre morti del crollo del ponte sul Marecchia. Ma Spataro, ministro dei Trasporti, non si è precipitato a Catanzaro per i settantuno del Fiumarella”. “E’ facile – conclude Monicelli – arrivare a Rimini da Roma. E anche nel Congo si arriva agevolmente, in aereo. Ma da Roma alla Sila ci vogliono tredici ore di scomodo viaggio questo hanno notato i calabresi”. Con il trascorrere del tempo, della sciagura non rimarranno che pagine ingiallite di vecchi giornali e il dolore dei familiari e delle comunità d’origine delle vittime. A mantenere vivo il ricordo di ciò che accade più sessant’anni fa, oggi ci sono il portale fiumarella.it e il libro di Giovanni Petronio: “I ragazzi della Fiumarella”.