Curioso destino postumo quello di Louis Aragon, scrittore comunista un tempo assai celebrato quindi pressoché dimenticato da ciò che resta della cultura di sinistra (talmente pedagogica da essersi via via smarrita in un infantilismo autoreferenziale, anestetizzante vuoto siderale riguardo a forme e contenuti), ma opportunamente recuperato da due case editrici italiane coraggiose ed anticonformiste: s’era detto altrove de La settimana santa (Settecolori), ora è la volta di un altro voluminoso romanzo, il celeberrimo Aurélien (1944), pubblicato da GOG nella traduzione di Andrea Vannicelli con uno scritto introduttivo prezioso, al solito illuminante, di Stenio Solinas. Celeberrimo qui va inteso non a caso o per vacua enfasi encomiastica, quantomeno per chi abbia un minimo di confidenza con la letteratura novecentesca nello specifico francese, giacché rimanda ad una curiosa parentela libresca, filo rosso subliminale che porta direttamente a Gilles (1939 – 1942), il romanzo più ambizioso di Pierre Drieu La Rochelle.
Nota l’amicizia fra i due, fin dai tempi dei fermenti surrealisti e delle avanguardie seguenti il primo conflitto mondiale, altrettanto risaputo il doloroso distacco dovuto a scelte politiche, ideologiche, anche esistenziali, progressivamente divergenti. Coerente al rosso della rive gauche fino alla fine Aragon, maggiormente “versatile” il tormentato Drieu, passato da un estremo all’altro alla ricerca di una sintesi europeista impervia, in fondo romantica quanto tragica, disillusione crescente che lo portò al suicidio il 15 marzo 1945. Il vincitore “liberato” e lo sconfitto braccato dai gollisti, semplificando abbastanza superficialmente, s’incontrarono tuttavia un’ultima volta, e per sempre su carta, all’interno dei rispettivi romanzi. Tra le pagine di Gilles, Louis Aragon (Galant) appare – bistrattato assieme al maniacale guru André Breton (Cael) e ad altri personaggi (Picasso, Cocteau) della scena intellettuale parigina più o meno riconoscibili – come un arrogante, invidioso, cinico, meschino, codardo, manipolatore al soldo della polizia, in fondo dando forma a quel “pamphlet contro me stesso e i miei amici”, nervatura che sottende la nausea esistenziale ed estetica del protagonista, il dandy Gilles Gambier, ovvero l’autore stesso.
Aragon, invece, confezionando un elegante abito su misura si mostra decisamente più clemente nei confronti del vecchio amico. In Aurélien Drieu è ben più di un fantasma tra gli altri, tirato in ballo per delineare un microcosmo artistico in fondo ipocrita, quello velleitario e tuttavia meschinamente borghese fra le due guerre, ma è il protagonista assoluto, colui che con raffinata indolenza dà titolo al romanzo; in più passaggi l’aderenza tra mimica letteraria e volto, capacità di rubare e restituire la complessa personalità dello scrittore suicida, risulta davvero sorprendente, tanto da infondere nel lettore una curiosa sensazione di spaesamento: quale dei due autori sta portandoci in giro per una livida, austera, gelida Parigi anni ‘20? Nei cafè e nei bordelli notturni, alle stravaganti vernici dadaiste, seguendo la nera traiettoria della Senna, tra misteriose maschere di fanciulle morte per affogamento, affaristi senza senno, puttane e politici imbelli? O più lontano, per disintossicanti fughe in campagna? Se non vi fosse il nome di Aragon stampato in copertina, verrebbe il dubbio di trovarsi proprio fra le pagine di Drieu, alle prese con qualcuno dei suoi irrisolti alter-ego.
Giusto prima di affrontare Aurélien, lo scrivente s’imbatté casualmente in Caravanserraglio, un tentativo di letteratura dadaista a firma Francis Picabia, nell’edizione italiana (Clichy, 2015) purtroppo appesantito da estenuanti note a piè pagina, tuttavia un ottimo compendio, bastevole ad illustrare il gioco di specchi della comunità artistica ed intellettuale parigina d’inizi ‘900. Provocazioni, eccessi, pose bizzarre, la spasmodica ricerca di un’espressività inedita ed originale, cosmopolitismo centrifugo, una pacchia babelica, sovraccarichi di snobismo in corto circuito nella Ville Lumière. Ecco, pure Picabia verrà a sua volta caricaturizzato, fagocitato nel romanzo di Aragon, pigliando le fattezze un poco untuose del pittore Zamora: scambi di cortesie fra addetti ai lavori.
Aurélien è un romanzo d’amore (va da sé impossibile: “il n’y a pas d’amour heureux”), allucinato, morboso e fantasmagorico, per certi versi degno delle acute osservazioni di Roland Barthes, con tanto di eroina quasi tragica, la sfuggente Bérénice. L’eternamente insoddisfatto Aurélien Leurtillois, ex combattente ritrovatosi solitario in società, algido viveur beneficiario di un vitalizio, annoiato dalla pace democratica, se ne innamora quasi per caso, scorgendo ipotizzando, immaginando dietro l’apparente anonimato della donna – provinciale sposata con un modesto farmacista, in gita a Parigi da parenti – il mostro seduttivo, un legaccio attrattivo sempre più stretto, l’indizio di qualche tanto attesa fatalità. La compiacente elusività di Bérénice, quella sua ingenuità campagnola mista a ben camuffata malizia, non assomigliano per nulla alle moine artificiose e alle esasperazioni ammaliatrici delle femmine parigine; ella conserva qualcosa d’enigmatico, semplice, pure d’illusorio e ingannevole com’è della portatrice di fascino, al qual cospetto il dandy anaffettivo non sa sfuggire: potrebbe trattarsi di uno specchio crudele nel quale intravedere la propria controparte femminile irraggiungibile, oppure peggio, di un masochistico sperpero d’attenzioni, ulteriore pretesto solipsista per restare comodamente inappagati dall’idealizzazione amorosa.
Bérénice smaschera spietatamente le convenzioni borghesi di Aurélien (Drieu) – il potere seduttivo di una donna è reale quanto un autoinganno – e forse è proprio lui ad averla inventata, reginetta estratta da un mazzo di carte, per darsi ad un autodafé passabilmente credibile nel bel mezzo di una stucchevole, sfiancante, inconcludente vita di società. Bérénice è un cul de sac, un baratro di ipotetiche sventure, ed il protagonista maschile bramandola lo sa perfettamente, difatti millanta iperboli su iperboli, promesse ed equivoci, come un cocainomane inappagato da scampoli di vissuto, emozioni d’incontri frugali rubate al tedio mondano, per potersi concedere quel desiderio amoroso sempre procrastinabile. Nel frattempo, tutt’attorno tra boutique teatri bistrot e gallerie d’arte, Parigi festeggia irresponsabilmente la propria luminosa auto-mitologia, attardandosi più del dovuto in baccanali esotici ed effimere mode, alimentando l’effimera ebbrezza per la vittoria bellica francese come se si trattasse di vivere eternamente di rendita. Come se si trattasse, per l’appunto, dell’insoddisfacente vita di Aurélien Leurtillois. Occorre qualcosa d’altro, qualcosa di più pericoloso e profondo, per avere l’impressione che l’esistenza abbia un senso, magari un’altra guerra. Puntualmente arriverà, per distruggere quello che era rimasto in piedi dell’Europa dalla precedente.
Per quasi 800 pagine Louis Aragon riesce a rendere meravigliosamente lo spirito dell’epoca, rovistando tra residuali raffinatezze, dipingendo vizi, snobismi e misere tragedie umane, parimenti scavando a fondo nella psicologia dell’amico Drieu, dioscuro irreparabilmente distante, al fine di cavarne fuori il perfetto anti-eroe, ritratto ossidato di un eccellente perdente; un po’ come l’Alain di Fuoco fatuo, un elegante soliloquio fatto persona di inquietudini pavidamente sottaciute dai più, squallori accantonati dai distratti dagli ignari dai complici per interesse, auto-sabotatore scrupoloso, coraggioso fino alle estreme conseguenze nell’addossarsi arbitrariamente sconfitte altrui – collettive, nazionali, europee – testimone di uno stile di vita in via d’estinzione: “…questo sollevava tutta una serie di questioni, il jazz, le razze inferiori. Leurtillois, dal canto suo, pensava che ci fossero dei negri che potevano avere fatto dei progressi, come quello scrittore che aveva vinto il premio Goncourt… ma insomma, da lì a dire che… In fondo, lui non era a favore né degli africani, né degli americani” (e un comunista può scriverlo).
Il romanzo termina, sprofonda, collassa vent’anni dopo, in uno straniante stacco temporale, qualcosa che nel 1944 ha il lezzo impietoso della cronaca bellica, il sapore amarissimo della disfatta francese. Aurélien e Bérénice si rivedono casualmente dopo molti anni, come tutti travolti dagli eventi; lui è uno stanco capitano in ritirata dai tedeschi, lei una sfinge senza più misteri, entrambi rassegnati ad esistenze marginali, imbruttiti, piegati a sconfitte colossali che li sovrastano. Mentre l’uomo indugia per un attimo nel passato desiderio, tenta di ravvivare l’antico fuoco amoroso, la femmina è già altrove, fredda assente cinicamente evanescente, sedata nel conclamato, inaccessibile, ménage famigliare, costretta nei prodomi della bellezza sfiorita, e così l’incontro tra i due assume i connotati di una farsa. Nulla torna daccapo, dacché rimpianto. Predestinazione, ardore, passione, desiderio, voluttà, incantesimi ed eterne promesse… tutto si sfalda, sfuma, degenera tracimando in sordida realtà. Tutto è perduto, Aurélien, Bérénice e le loro controfigure sfocate, la Francia, l’Europa, Drieu con le sue utopie, maschere decadenti che fluttuano in un sogno romantico retrodatato, probabilmente una superstizione parigina, vecchia foto d’Europa quand’era tale, dramma e pretesto per un’autobiografia conto terzi, certamente uno splendido romanzo.