Gabriel Marcel è uno dei rappresentanti più noti dell’esistenzialismo cristiano, vivace corrente teoretica del secolo scorso, che ha tentato (vanamente) di correggere gli esiti nichilisti dell’esistenzialismo di matrice sartriana. Nella vasta e poliedrica produzione di Marcel c’è un’opera che si distingue dalle altre, fortemente segnata dalla critica del moderno. Della cosa si accorse Julius Evola che, per questo, la tradusse nella nostra lingua. Ci riferiamo a, L’uomo contro l’umano la cui nuova edizione è da poco nelle librerie per i tipi di Iduna (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 221, euro 18,00). Il volume è arricchito dall’introduzione di Nuccio D’Anna, che contestualizza storicamente la filosofia di Marcel.
In questo testo, il filosofo francese descrive la condizione spirituale e intellettuale dell’uomo moderno. Il quadro è drammatico: la modernità ha determinato, con gli sviluppi del soggettivismo cartesiano, il progressivo fanatizzarsi delle concezioni degli uomini. Questi, perso ormai il contatto con la dimensione dell’essere e, pertanto, con la realtà, vivono di false certezze indotte in loro da una teoria della conoscenza centrata, almeno dall’età dell’idealismo, sulla mera astrazione intellettualistica. Non orientando più gli uomini il proprio percorso di vita attorno al reale, al Centro, rappresentato, per il pensatore, da Dio e dalla trascendenza, si è registrata una conseguente perdita irreversibile dei valori che, fin dall’antichità, hanno indirizzato l’iter dell’umanità. Si badi, le argomentazioni di Marcel sono antimoderne, egli guarda all’epoca nella quale ebbe in sorte di vivere con occhio decisamente critico, eppure invita i suoi lettori a evitare di rifugiarsi nell’idealizzazione del passato. Il moderno non deve, tout court, essere rifiutato. Egli stesso non si sentiva estraneo alla realtà storica, con la quale accettò di confrontarsi.
Le tesi del francese possono essere valido sostegno per quanti si battono contro la massificazione contemporanea, contro il mondo definito umano dal pensatore, che ha determinato l’abbandono dell’uomo alla solitudine cosmica, connotata dalla situazione esistenziale dell’angoscia. D’Anna presenta al lettore i pensatori e i momenti speculativi di maggior rilievo dell’esistenzialismo cristiano. Ricorda non semplicemente che tale scuola prese le mosse dalla filosofia di Kierkegaard ma che ebbe in Karl Barth, negli anni Trenta del secolo scorso, un rappresentante di primo piano. La speculazione barthiana si chiuse nel teocentrismo. Solo la fede, a dire del teologo, sarebbe stata in grado di risolvere l’inquietudo dell’ex-sistere, proprio perché, nel finito delle nostre esistenze, si dà anche la presenza dell’infinito, del divino, in forza dell’atto di creazione. La fede è un possibile che si apre all’uomo, solo a condizione che questi abbia vissuto lo scacco gnoseologico. La crisi che ne segue può essere risolta nel credere: «L’esistenza […] viene trasfigurata, il biblico “uomo vecchio” […] scopre un “ uomo nuovo”» (p. V). Si ripropone, in tale passaggio, la lezione paolino-agostiniana: la morte dell’uomo esteriore, dell’uomo abbagliato dalle luci del mondo. Barth porta a estrema coerenza teorica le intuizioni emerse in Dostoevskij.
Ancor più radicale, risulta la proposta di Peter Wust che, animato da un potente afflato mistico-contemplativo, sostenne nell’uomo di fede, nell’ “uomo nuovo”, il permanere del fondo abissale dell’angoscia, il sentimento della nullità dell’esistere finito. Ragione e dati obiettivi sono guide insicure lungo la via che conduce alla salvezza. Marcel, al contrario, propone una via filosofica libera dai legami con le eredità cartesiane e razionaliste, centrata su: «una partecipazione intima ai ritmi universali, possibile solamente perché si è riusciti a evocare quello che il filosofo francese chiama il fatto del sentimento» (p. VII). È necessario lasciarsi alle spalle il dualismo cartesiano, la contrapposizione di soggetto-oggetto, mettendo in discussione la stessa veridicità dei processi di “oggettivizzazione”. La filosofia deve tornare a riflettere sull’essere, sulla realtà umana esistenziale, fatta anche di corporeità dolente. L’essere è, per Marcel, mistero, di fronte al quale ogni uomo si trova coinvolto.Vissuta in profondità, l’esperienza del mistero può aprire alla trascendenza. Anziché rinviare all’essere, la modernità vive esclusivamente la dimensione dell’avere. Di fronte a tale opzione l’uomo deve scegliere, deve progettarsi come vivente e recuperare l’essere, riscattando la condizione umana dalla reificazione in cui è caduta.
Nelle pagine di L’uomo contro l’umano, Marcel si confronta con il problema della tecnica, rilevandone i vantaggi materiali ma anche gli aspetti negativi. Tra essi, un ruolo significativo va attribuito al processo di “polverizzazione” della vita, che i dispositivi tecnici, condizionando gli uomini, hanno messo in atto. Il filosofo pare non aver coscienza, a differenza di Heidegger, che la tecnica è l’espressione ultima della metafisica, è il suo farsi mondo attraverso la desacralizzazione della natura e della vita. Auspica, il Nostro, il recupero di un sacro che sia realmente vissuto e trasfigurante. A esso può condurre la speranza: «una vera e propria apertura al mistero dell’essere, una via di trasformazione interiore» (p. XIII), che si pone oltre ogni astratto intellettualismo. Le pagine più riuscite del volume ci paiono quelle dedicate al ruolo del filosofo nella realtà moderna. In un mondo costruito sul rifiuto della riflessione: «Spetta al filosofo […] attaccare questa confusione, senza presunzione e senza farsi false illusioni, avendo però il senso che questo è un imprescindibile dovere» (p. 108).
Affermazione di rilievo, che indica un compito, se non una via d’uscita dalla scacco del presente. Non è poca cosa.