Nella città sudcoreana di Busan, durante una notte piovosa, So-young, una giovane madre in difficoltà economiche e in piena crisi esistenziale, decide di lasciare il figlioletto appena nato in una baby box (moderna versione della nostrana “Ruota degli Esposti”) di un ospedale statale, augurandosi di garantirgli una vita almeno decente. Il pargolo viene però “intercettato” da Sang-hyeon e Dong-soo, che gestiscono una attività clandestina di contrabbando di bambini, per i quali cercano i genitori giusti in tutto il Paese, pretendendo tuttavia una ricompensa per i loro servigi. Quando la donna, pentita di quel che ha fatto, torna per riprendere il figlio, trova i due uomini, che riescono a convincerla che la scelta migliore per l’avvenire del piccolo sia venderlo alla coppia disposta a offrire di più.
Inizia così un pellegrinaggio alla ricerca di una famiglia adottiva, ma i tre ignorano la circostanza che sulle loro tracce si siano messe la detective Su-jin e la giovane collega Lee, determinate ad arrestarli dopo averli colti sul fatto. Nel corso di un viaggio dal sapore tipicamente on the road, il gruppo finisce per diventare un po’ per caso una sorta di “famiglia-non-famiglia”, sviluppando relazioni e sentimenti che purificano la loro anima, alimentando nel contempo una, seppur minima, speranza nel futuro.
Con Le buone stelle – Broker (브로커, “Beurokeo”, 2022), Hirokazu Koreeda (si consiglia caldamente di evitare la grafia col trattino del cognome!) declina il suo oramai conclamato patetismo – inteso in una accezione positiva – in un contesto al di fuori del Giappone: la Corea del Sud, da sempre “ponte” tra l’Arcipelago e la Cina, nonché in passato colonia giapponese. A onor del vero, lui che è, a nostro avviso, uno dei più ispirati autori nipponici in attività, non poteva scegliere Paese più adatto, in virtù del suddetto legame storico tra i due Popoli e una probabile base etnica comune (la radice mongola). Vi è inoltre una certa sensibilità che coreani e giapponesi condividono, tra estetica e malinconia, cosa che non avviene affatto per quanto riguarda la ieratica cultura cinese.
La pellicola, che ha come protagonista il Song Kang-ho di Parasite (2019) di Bong Joon-ho (ruolo che gli è valsa la Palma d’Oro quale Miglior Attore all’ultimo Festival di Cannes), è innanzitutto una elegia della compartecipazione dei sentimenti, che vede nel concetto di famiglia, un organismo primario che va – come in questo caso particolare – ben oltre i vincoli di sangue. Pare abbastanza chiaro che da tempo Koreeda individui in ciò la forma massima per esprime il pathos. Eppure, nelle sue opere degli ultimi circa dieci anni, tale legame non è da lui percepito e raccontato come taluna critica puntualmente cinica ritiene del puro sentimentalismo, giacché sono l’impegno e la responsabilità verso il prossimo i fattori che rendono possibile una pacifica forma di resistenza umana contro una contemporaneità “dromocratica”, per dirla col filosofo francese Paul Virilio (1932 – 2018), e sistematicamente più spersonalizzante. Quindi, anche in questo suo film, il regista giapponese insiste sul fatto che essere insieme è l’unico modo per opporsi al sistema e alle sue storture sociali: nella fattispecie ponendo enfasi sulle leggi per l’adozione. In Le Buone Stelle, non vi è un giudizio morale nei confronti dei personaggi, nel domandarsi cosa sia giusto o sbagliato; se una madre che sceglie di dare via il proprio figlio debba venire considerata una debosciata o se i due “broker” siano dei vili approfittatori. È il viaggio sgangherato di questa famiglia improvvisata che conta come, del resto, il soffermarsi sulle abitudini quotidiane, tra tutte il mangiare. Già, in questa storia il cibo scandisce la vita dei sudcoreani, nel loro modo un po’ rozzo di ingollare le pietanze, a partire delle due summenzionate poliziotte, le quali pasteggiano con gran piacere nella loro vettura durante i vari appostamenti, proponendo una versione del “piedipiatti” in totale antitesi col cliché che abbiamo introiettato a forza dal cinema USA, per il quale costui è un individuo fondamentalmente disilluso e che ingurgita in fretta e furia e senza condivisione hot dog acquisitati dall’immancabile venditore ambulante.
Possiamo convenire che certe tematiche e dinamiche siano diventate una parziale ossessione per Koreeda. Nondimeno, crediamo che liquidare il tutto con un simile giudizio risulti abbastanza riduttivo, poiché se di ossessione si tratta, questa è comunque soave ed emozionante. Vero, quelle del cineasta del Sol Levante sono passioni sommesse. Ciononostante, esse giungono potenti a chi è in possesso di un minimo di sensibilità, spingendo a interrogarsi su questioni che oggi diamo per scontate: cosa è la famiglia? Perché stare assieme con gli altri? Koreeda si astiene in questa pellicola dal dare delle risposte a tali quesiti; gli è sufficiente rinnovare un messaggio, scagliare un sentimento, spetta a noi farlo nostro e capirlo.
Concludendo, Le Buone Stelle – Broker non è francamente il suo miglior lavoro, e la vicenda può, in effetti, apparire piatta e monocorde, benché crediamo difficile che alla uscita dalla sala ognuno di noi non provi qualcosa. Ecco, questo è il cinema di Koreeda. Per mezzo di una reiterazione sobria ma vagamente ipnotica della routine, che abbassa il “filtro razionale” nello spettatore, coinvolgendolo nella carica emotiva della trama, fin quasi a farlo entrare in essa, il regista giapponese porta avanti la sua personalissima battaglia sulla importanza della ricomposizione della famiglia, e, in questi tempi di prevalente agnosticismo, non è certo una idea da avversare. Koreeda, oltre alla sua proverbiale eleganza diegetica, ha come precipua qualità la chiarezza. Ragion per cui, è impossibile chiedersi di cosa parli questo film.