L’Italia, “media potenza a vocazione globale” ha bisogno di una cultura del mare. Può sembrare un’ovvietà, ma tanto ovvio non è se è vero che alle politiche marittime, soprattutto negli ultimi decenni, i governi e la politica in generale non hanno dedicato l’attenzione che meriterebbero. Un tempo vi era un ministero della Marina mercantile: si è deciso, senza un motivo plausibile, di abrogarlo e dislocare in altri dicasteri alcune delle sue competenze. Non era molto, ma qualcosa che comunque significava attenzione verso il mare e la ricchezza che esso racchiude. L’area liquida che circonda ottomila chilometri di coste italiane è stata quasi abbandonata. E per di più il suo abbandono ha significato la fine dell’influenza geopolitica autonoma nazionale proprio mentre il terricolo “sistema italiano” aveva più bisogno di lanciare la sua sfida marittima a fronte degli appetiti e degli interessi di grandi potenze che ambiscono a controllare il Mediterraneo ed attraverso esso l’Europa.
Per la sua posizione geografica – e nulla è più “politico” della geografia, come sapevano gli antichi soprattutto, ed in particolare i greci, gli egizi ed i romani – l’Italia dovrebbe avere una destino marittimo che invece non ha, neppure a fronte di organizzazioni internazionali, come l’Assemblea parlamentare Unione per il Mediterraneo nella quale la sua presenza è a dir poco distratta a differenza di Paesi come quelli nord africani, che cercano di darsi da fare per giocare un ruolo attivo nel Grande Mare.
Una Patria senza mare ha intitolato il suo pregevole, documentatissimo ed affascinante volume Marco Valle, spiegando, nel sottotitolo “Perché il Mare Nostrum non è più nostro” e raccontando la storia dell’Italia marittima nella maniera più sontuosa che si possa immaginare, attraverso la storia (sorella della geografia) del destino marittimo italiano ed europeo nel vasto oceano “interno” che è il Mediterraneo (Signs Books, pp. 539, euro 25,00). Raramente titolo fu più azzeccato. “Il Mediterraneo, al netto della retorica europeista – quella ‘tensione lotaringia’ che Cavour rimproverava ai suoi molto provinciali colleghi di governo – rimane per l’Italia un’occasione, una prospettiva forte e, forse, l’unica percorribile”, scrive Valle, nella prospettiva di una “media potenza”, in quanto solo sul mare e attraverso il mare possiamo difendere la nostra vocazione mercantile e rilanciare una proiezione d’influenza geopolitica che non debba scendere a patti con altre pretese che si addensano nel Mediterraneo.
Non dovrebbe essere difficile. La “centralità” dell’economia marittima è incontestabile. Valle cita cifre che se venissero “pesate” politicamente si attiverebbe quanto meno un Ministero del Mare del quale si parla ogni tanto, ma senza costrutto, poiché attraverso il Mediterraneo transita il 20% del traffico commerciale mondiale, il 25 di linea container, il 30 del movimento petrolifero, senza considerare l’imponente volume d’affari legato al commercio estero e più del 90% dell’energia che si muove attraverso il mare. Vogliamo metterci l’imponente rete di cavi sottomarini che alimentano le comunicazione tecnologiche? Il quadro è ancora povero dimenticando che il Mediterraneo è un bacino pescosissimo nel quale si sono letteralmente “tuffati” numerosi Paesi orientali, a cominciare dal Giappone che si accaparrano derrate di pesce imponenti per il loro fabbisogno e noi li lasciamo fare impoverendo una risorsa decisiva nella nostra alimentazione. La pesca, che costituisce la terza flotta europea, i porti, la cantieristica, la nautica, il turismo sono i tasselli di una ricchezza che l’Italia non tutela abbastanza.
Ecco perché, come sostiene l’autore del libro, è urgente e necessario attivare strategie e politiche fondate su una cultura del mare, oltretutto di antico retaggio. E non si capisce perché, come scrive Giampiero Cannella nella sua brillante prefazione al volume, “il nostro Paese è riluttante a mollare gli ormeggi dalla sua visione terragna e navigare nel mare della competizione globale” per aderire a quel suo ruolo naturale di potenza marittima regionale.
Sembra che della questione a nessuno importi. Eppure il ricordo che esercita la storia del Mediterraneo, connessa alle vicende europee ed a quelle italiane in particolare, evocato da Valle, dovrebbe come minimo suscitare entusiasmi ed interessi non soltanto nella classe politica, ma anche tra gli intellettuali. L’epopea delle Repubbliche Marinare ha costituito un punto di partenza per costruire l’identità nazionale; le Crociate non sono state soltanto una “riconquista” della Cristianità a fronte dall’arroganza musulmana, ma hanno aperto un percorso di civiltà nel quale si sono ritrovati i popoli europei l’uno accanto all’altro nella formazione su un terreno comune di culture che hanno seminato passioni e progressi e valori comuni in una sterminata terra come l’Europa. E tutto ciò mentre gli armati del Saladino mettevano a ferro e fuoco il Vecchio continente, da Lepanto a Belgrado e triestini, toscani e sabaudi si ritrovavano nel mare degli inglesi quasi contemporaneamente, dopo gli anni fulgidi del Rinascimento, quando le potenze europee solcavano i Mari con la benedizione pontificia e Napoli viveva forse la sua ora più bella: capitale di un grande Mare, nella quale rinascevano antichi splendori che si fondevano con quelli di altri popoli vicini, e via seguitando, fino alla grande guerra, alle gesta dannunziane nell’Adriatico, al miraggio imperiale che muoveva dalle coste del Mediterraneo, alle grandi navi che attraversano l’Oceano Atlantico partendo dai porti italiani.
C’è tutto questo e molto di più nella storia che Marco Valle racconta e fa quasi toccare con mano, come se la vivessimo mentre scorriamo le dense pagine del libro dal quale è possibile perfino guardare al Mediterraneo con gli occhi dell’uomo del passato, fingendoci – dallo scoglio di Malta, alle rive del Peloponneso, dalle nere spiagge siciliane, dalle isole egee, dalle insenature turche, dai golfi africani – viaggiatori nello spazio liquido alla ricerca di rotte antiche sulle quali indirizzare un vero e proprio percorso sentimentale, nella convinzione che nel Mediterraneo tutto ciò che è eterno ha avuto origine: mare dell’amore, sacro come ciò che dà la vita e la vita si riprende alla fine.
Oggi, malauguratamente, si raccolgono frantumi sulla superficie liquida della nostra storia. E le parole di Fernand Braudel acuiscono la nostalgia per ciò che non c’è più o che non si riconosce più: “Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose al tempo stesso. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma una successione di mari. Non una civiltà ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia”.
Nel 1540 Carlo V giunse davanti ad Algeri, il mare in tempesta fece scontrare due delle sue navi: l’imperatore abbandonò, presago di un disastro più grande se si fosse ostinato nel tenere la rotta che si era prefisso. Oggi affacciandosi sulle alture che dominano la baia d’Algeri il sangue lo si vede scorrere come torrenti d’acqua sporca dove si calpestavano gioie e dolori nel sogno di una liberazione che è stata l’anticamera della tragedia: meglio i popoli vivi che quelli uccisi dall’odio.
Da un capo all’altro del Mediterraneo, lambendo le coste italiche ed ispaniche, l’inquietudine si tocca con mano, sfiorando il pelo dell’acqua. Le civiltà non si riconoscono più. Anzi si detestano. E i popoli si offrono alla considerazione dell’osservatore come soggetti insoddisfatti.
Nel Mediterraneo si addensano parole e crimini: i fiori dell’amore e della musica e della poesia che pure ingentilivano le crudeltà imperiali, papali o musulmane e lo stupore del mondo benediceva l’arte come Adriano il conquistatore, sono scomparsi perfino nei recessi della memoria. L’identità del Mare Nostro è indecifrabile, forse non c’è più. Al suo posto rileviamo un lungo lamento che ci fa capire come la storia sia finita da un pezzo; la storia di un porto senz’anima dove s’incrociano traffici indifferenti ai popoli che sulle sue rive s’affacciano e vivono nel disinteresse dei padroni del mondo.
È stato detto che oggi i Paesi del Mediterraneo non hanno altro in comune che l’insoddisfazione di chi li popola. Forse si dovrebbe aggiungere che esso è il contenitore di conflitti i cui rumori con difficoltà la vecchia Europa, rassicurata dal fatuo e pericolante benessere che produce, percepisce in maniera non adeguata. Eppure dalle sue sponde risuonano grida che il Mediterraneo ha già conosciuto nelle molte età del ferro che l’hanno attraversato. Ma a differenza del passato, oggi non riesce a trovare un “centro ordinatore” in grado di indirizzare la convivenza tra i popoli nel senso della pace “non indifferente”, bensì consapevole, fondata cioè sulla convivenza nella quale le culture abbiano riconoscimento e la vitalità di ogni etnia si armonizzi in un contesto di tolleranza. Difficile, naturalmente. Soprattutto se l’Unione europea si sviluppa senza tener conto della sua “culla” mediterranea diventa perfino impossibile immaginare un destino diverso per il nostro mare, considerato come una vera e propria “linea di faglia” da abbattere per omologare genti, costumi, tradizioni, linguaggi – la sua ricchezza seducente – secondo stereotipi culturali e prepolitici estranei al modo d’essere dei popoli mediterranei.
Manca, insomma, un principio ordinatore in grado di far diventare il Mediterraneo un “progetto”. Per quanto ben ispirate, le numerose convenzioni stipulate negli ultimi anni non hanno sortito gli effetti sperati. Per il semplice fatto che nessun governo ha considerato il Mediterraneo per quello che è, vale a dire il “luogo” dell’incontro dove Oriente e Occidente, Cristianità e Islam, Sud e Nord del mondo, avventure dello spirito e disavventure dell’intelligenza incrociano le loro differenze e le loro speranze.
Si può dire che soltanto Roma abbia compreso la “crucialità” del Mediterraneo. Ma Roma non è più da molto tempo “principio ordinatore”. Da essa non passa la Storia. E all’ombra delle immagini del passato non sboccia neppure un’idea che sia in grado di esercitare attrazione per quanti cercano occasione di pacificazione.
Nonostante tutto, conclude Valle, sui crinali della sfida geopolitica, sulla centralità del Mediterraneo, sulla stabilizzazione delle frontiere, su una consapevole tensione demografica, sulla rivendicazione di una storia si gioca la partita del futuro dell’Italia. Non dimenticando che la nostra nazione è ad un tempo porta aperta sul Settentrione d’Europa, strada verso l’Asia e l’Africa. Nessuna nazione ha una naturale vocazione pacificatrice e civilizzatrice, per via della sua posizione, come l’Italia. Basterebbe questo perché la nostra Patria ritrovasse la via del Mare…
Più che al remoto Mare Nostrum io penso a tutta quell’acqua come ad un mare di guai, da Cartagine alla politica estera di Crispi e Mussolini: Balcani (inclusa la regina Elena del Montenegro) e colonie, per finire male… Dal Mediterraneo, ieri come oggi arrivano terrorismo, traffici loschi, criminalità, guai, povertà materiale e civile… Certo la geografia non si cambia, ma, pur relativamente, ci possiamo difendere dalla sua invadenza perniciosa…
…passando per saraceni e pirati barbareschi…