Tra i classici del ‘900, o meglio della prima parte del secolo, giacché la seconda non ne ha punto partoriti, L’uomo senza qualità di Robert Musil è quello che, sulla distanza, desta minori clamori, immune da entusiastiche riscoperte e citazionismi d’eruditi, avvolto com’è in una sorta di bigio torpore, d’inespugnabile, inibente discrezione tutta mitteleuropea. Solitamente accostato in trittico all’Ulisse di Joyce e alla Recherche di Proust, più d’altro per la comune imponente mole e l’universale riconoscimento di capolavoro, non possiede l’iperrealismo sperimentale del primo né la perversa circolarità strutturale del secondo; altresì è di dominio pubblico che appartenga alla categoria delle opere incompiute, ma questo è totalmente ininfluente, non tanto per l’ingenua curiosità tutta contemporanea di sapere, diversamente, come sarebbe andato a finire restandone delusi, bensì al contrario per la potenziale infinitezza del romanzo: fossero stati quattro o sei tomi invece dei tre pubblicati (poi raccolti in due da Einaudi), la sostanza profonda, adattata ad una sorta di moto perpetuo, non ne avrebbe affatto risentito. Più di un “libro-mondo” è un libro-voragine, addentrandosi nel quale pare di sprofondare nelle sabbie mobili, non terminato e che verrebbe la voglia di non terminare, tanto per contraccambiare, per dimostrarsi affatto all’altezza facendo dispetto a se stessi, lettori sopraffatti da un senso di carognesca reciprocità proprio coll’uomo senza qualità, inermi al cospetto di un duello con lo scritto perso in partenza.
Dov’eravamo, dunque? Suppergiù in Cacania (da “kaiserlich-königlich”), appellativo dispregiativo non privo di sarcasmo, divenuto noto meta-luogo in associazione al crepuscolo dell’Impero austroungarico, anche se nella prosa asciutta di Musil il termine compare qua e là, invero di rado, come ad indicare una sovrastruttura burocratica da canzonare quando è il caso; è quello lo scenario preposto allo svolgimento dei fatti narrati, così pure di quelli che aleggiano nel non scritto, evaporati nell’irrisolto atmosferico del declino asburgico di fine ‘800. Infatti, di contro ad una marcata caratterizzazione dei personaggi, assai approfondita psicologicamente dato che Freud è convitato di pietra in tempo reale, assieme al Nietzsche fresco di follia, si ramifica una non-trama “bipolare” – interiore ed esteriore, intima e urbana, soliloquio e dialogo – la quale avviluppa e inghiotte protagonisti e comparse, in una sorta di preludio diffuso. Per l’appunto i preliminari, estenuanti attese di epifanie, come s’usa dire in compagnia dei saggi fondamentali, giacché di qualsivoglia realizzazione compiuta non resteranno altro che i magoni della morta finitezza, essi vengono piegati da Robert Musil fino al parossismo dell’industriosa inanità, mescolati in una sorta di fatale dejavu. Il consorzio umano con voce in capitolo nel bel mondo viennese, quello dell’alta borghesia e della filantropia di stampo massonico, della nobiltà e dei notabili, delle élites militari e della politica, della finanza cosmopolita, delle arti, accademie ed erudite scienze, dei giuristi e delle grandi dame carismatiche in fregola d’emancipazione femminista, delle crescenti istanze nazionaliste fattesi sempre più radicali, degli affabulatori illuministi come dei nostalgici romantici, idealisti e neoplatonici, ebbene, tutto questo indaffarato campionario di privilegiati luminari riuniti in assise ecumenica permanente, sembra essere chiamato con urgenza, addirittura dal Destino, all’azione, obbediente ad un inesorabile appello al cospetto della Patria, della Storia e ovviamente dell’Imperatore, a “fare qualcosa”. Sì, ma cosa? E perché? Per noia patrizia? Plausibile, ma non basta, occorre scavare più a fondo. Dio è morto da poco, funerali celebrati da Zarathustra, difatti, nel testo, il vuoto spirituale lasciato si percepisce fortemente. Ci si affanna a pensare ad altro, in un clima d’ipocrita formalismo regolato meccanicamente dal colossale apparato statale, per timore del cadavere divino del quale si scorgono solo labili tracce, uno strumento dialettico come un altro per spuntarla alle arringhe da salotto, l’abitudinario riflesso condizionato delle conversazioni metafisiche. Qui un accostamento cinematografico a Malmkrog, film del 2020 diretto da Cristi Puiu, risulta piuttosto pertinente, così pure a El ángel exterminador, celebre pellicola del 1962 di Luis Buñuel.
L’uomo senza qualità mantiene sottotraccia per più di mille pagine un’ansia strisciante, costrizione subliminale, specie di parusia laica e moderna, giogo incapacitante tradotto in pettegolezzo pretenzioso ed interminabile, rumore di fondo riguardante un quesito senza risposta, l’indagine accurata a proposito una domanda mai posta, mosaico d’enigmi in frantumi, scrutato da diverse angolature lasciando in bella mostra tutti gli sforzi profusi, l’alacre volontariato per un superiore scopo, protratto per inerzia fino al puro sofismo, reiterato anche solo per ricordare al simposio convenuto il motivo reale di tale condiviso affanno. Un movente che però sfugge di continuo, tant’è che sovente il romanzo muta registro per lambire il canone del saggio filosofico. L’Azione Parallela, per l’appunto convivio semiufficiale di stimate seppur malassortite personalità, fantasmi delegati alla bisogna con ambizioni di regia occulta, tesi a plasmare i destini del Mondo partendo dalla retorica della fratellanza universale, ma all’occorrenza anche dal suo ombelicale contrario – nonché dal logoro simulacro immobilista del prestigio asburgico – fondata appositamente al fine di promuovere l’imminente giubileo imperiale, si fa pagina dopo pagina meschino pretesto per celebrare i più illustri partecipanti e le corporazioni d’appartenenza; tutto in vista di un imprescindibile “miracolo” patriottico, evento collettivo dai nomi sempre diversi, capace di armonizzare gli estremi perpetuando lo status quo. Fuori dai palazzi, intanto, incombe la “modernità”, ma che volto abbia nessuno lo sospetta ancora, potrebbe essere una superstizione, magari un’allucinazione, trucco dei tempi nuovi, se ne deduce solo la caotica piega, l’eco di un trattenuto subbuglio in procinto d’esplodere, profumino di nichilismo, qualcosa d’informe e montante, una pericolosa deriva da arginare. Prenderà più concretamente il nome di Guerra, ma questo Musil non lo scrive, resta nell’implicito storico. Il senso d’angoscia latente, ben camuffato nei circoli esclusivi dall’ambizione e dai formalismi del cerimoniale mondano, trova sfogo in qualche squarcio spaventevole, contraltare scandaloso e capro espiatorio perfetto per la configurazione dell’innominato male domestico. Il caso Moosbrugger ad esempio, il mostro campestre, omaccione selvatico, stupratore assassino di inermi donzelle, diventa pretesto da un lato per inaugurare un forbito dibattito sul Diritto e sulla psicanalisi applicata alla Giustizia, dall’altro per smuovere certe reticenze borghesi, emotività e languori soprattutto femminili; donne attratte dalla vitalità irrazionale della violenza, di contro alla stucchevole paralisi della civiltà dabbene. La tragicomica visita al manicomio da parte di una delegazione patriottica, tra i gironi dei folli indistinguibili dai loro bianchi guardiani, dov’è rinchiuso il criminale in attesa del probabile patibolo, è un puro distillato di decadentismo adattato ai tempi, un lucido incubo dove ci si trova dentro Robert Walser come Franz Kafka. D’altronde, coerentemente all’andazzo generale, pure il caso Moosbrugger non troverà risoluzioni di sorta: come sotto lo scacco di un incantesimo di massa, prendere decisioni sembra impossibile.
Volti che sbiadiscono, come dipinti su carta lasciati alla pioggia, umanità effimera nella perduta heimat e, su tutto, un fitto velo di falsità, la fissità nel museo delle cere: L’ebreo affarista col servetto negro, cosmopolita tormentato dal demone del potere e da velleità letterarie, il tronfio Generale introdotto a salotto, così simile ad un dipinto caricaturale della Neue Sachlichkeit, quindi Diotima, affascinante quanto ingenua vestale, anima ed adescatrice dell’Azione Parallela; eppoi Walter, l’artista isolato che non trova più il senso del suo creare da quando il mondo si è rivelato indegno di bellezza, la moglie Clarisse algida creatura, frigida visionaria in preda a turbe mentali, circondata da anacoreti carichi di suggestioni orientali e non meno astratti psicanalisti, votata ad un confuso umanitarismo, talvolta patetico in assenza di Dio. Hans Sepp l’antisemita privo di patemi esistenziali, precursore dei futuri entusiasmi nazionalsocialisti, un vecchio e danaroso conte prussiano, il tormentato professor Lindner appartato nella sua retrograda morale, eppoi cocottes trasformiste, banchieri faccendieri diplomatici, ma soprattutto l’irrisolto per eccellenza: Ulrich, alter-ego dello scrittore, l’uomo senza qualità, colui che ha a che fare con tutti e nessuno. Di formazione scientifica, precisamente ingegnere, colto raffinato sobrio sagace, scapolo, stimato e perciò saggiamente distaccato, più d’altro disincantato, il protagonista è tutt’altro che privo di virtù, evidenza che rende il titolo quantomeno paradossale, giacché sarebbe risultato più pertinente annunciare “L’uomo in un mondo senza qualità”, laddove è proprio il contesto impotente, annichilente intreccio di aleatorie relazioni sociali, a infondere tra i più una contagiosa mediocrità. Ulrich ne prende parte – in fondo facendo pesare la distinzione che passa fra un uno snob ed un misantropo – ma con il tipico atteggiamento scettico di chi, approfittando della sigaretta, va da sé pestilenziale nei luoghi chiusi, esce fuori un attimo, col segreto desiderio di tornare mai più. Accade per l’appunto un fatto che rompe gli indolenti equilibri: la morte del vecchio padre, esimio giurista, offre l’occasione, o l’atteso alibi, ad Ulrich per abbandonare la verbosa scena viennese. Nei luoghi dell’infanzia, in provincia, lo attendono seppiati ricordi, oltre alle meste incombenze formali – tutta una interminabile serie di disbrighi burocratici, fra notai, preti, agenti immobiliari, impresari funebri, semplici questuanti – atta a rendere consone le esequie dell’illustre accademico, passaggio che Musil risolve adottando un registro sottilmente comico.
Ulrich, pur mantenendo la consueta impassibilità anche a fronte della morte del padre, resta però folgorato dal ricongiungimento con la sorella Agathe, perlopiù sconosciuta dopo anni di lontananza reciproca. Tra i due nasce una stravagante complicità, repentinamente sempre più radicale e per la prima volta il protagonista sembra perdere il consueto aplomb, scosso dalle irrazionali proposte della sorella. L’avvento di Agathe, bella e sorprendente, personalità complessa propensa al suicidio come alla vitalità, talvolta frivola eppure carismatica, visionaria con afflati mistici e radicalmente antiborghese, fa carambolare gli eventi fuori di scena; così, nel capitolo titolato finale Verso il regno millenario, la prospettiva del romanzo si ribalta in un altro, diverso, vicolo cieco. Rapidamente si susseguono imprevedibili accadimenti: la manomissione del testamento paterno in favore del solo Ulrich connessa al desiderio della sorella di separarsi dal marito, un pedante, virtuoso progressista del quale liberarsi con solerzia; poi il ritorno a Vienna e l’introduzione in società di Agathe, l’anarchica, onirica, convivenza dei due, trasfigurati in gemelli siamesi in un delirio androgino di seducenti intimità, assai prossimo all’incesto. Un amore tutt’altro che fraterno bensì propriamente erotico, sensuale istinto braccato dal pensiero e dalle convenzioni sociali, lubrica correità scandalo adombrato, insinuato, tuttavia mai esplicitato appieno nella compiuta carnalità (benché, in appendice, i curatori abbiano inserito un frammento intitolato Il viaggio in paradiso, nel quale i residuali scrupoli tra fratelli vengono adombrati in favore di una lascivia di gusto naturalista). L’ennesimo cul de sac, nella coerenza di un romanzo votato all’irresolutezza.
L’indifferenza dall’approccio scientifico dell’uomo senza qualità muta gradualmente, evolve in fiabesca pastorale, una fuga bucolica a due, contemplazione mistica del regno dell’amore, estatico dialogo totalizzante: nell’epilogo d’estenuante lunghezza, spariscono tutti i personaggi, scompare la città assieme alla politica, all’Azione Parallela e ai doveri sociali, scema la struttura stessa del romanzo in favore di una dialettica spirituale quanto allucinata in assenza di Dio, quasi un’astrazione di purezza evanescente sganciata dalla materia umana; Ulrich e Agathe sembrano a tutti gli effetti alienarsi al mondo, perduti in un finale non tanto lasciato in sospeso, ma impossibile a risolversi in alcun modo. Frana nella confusione di verità e falsità, di giusto e sbagliato, soggettività e collettività, attimo ed epoca storica, un lungo, proteiforme, babelico, trattato attorno alla Morale. L’incompiuto capolavoro, al quale Musil mise un punto arbitrario, non avrebbe avuto tuttavia diversa sorte: è un romanzo che finisce dove comincia la Storia