Il primo piano di Emma Bonino la dice lunga sul film di Gianni Amelio “Il signore delle formiche”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e primo nelle sale per incassi.
Il film regala una intensa e straordinaria interpretazione di Luigi Lo Cascio e l’esordio altrettanto importante di Leonardo Marchese, i cui personaggi Aldo Braibanti ed Ettore Tagliaferri avrebbero potuto essere icone per le battaglie radicali. Ma la presidente di + Europa appare nel film con il volto di oggi e allora tutto torna. Torna che “Il signore delle formiche” racconta una storia incresciosa del 1968 per dare dell’increscioso al modo con cui la politica in questo ventennio affronta il tema dei diritti civili.
Il film ricostruisce il caso Braibanti. Il poeta e mirmecologo Aldo Braibanti, animatore del Torrione, un laboratorio teatrale nelle campagne Castell’Arquato, omosessuale inizia una relazione con un giovane allievo Giovanni Sanfratello- nel film il nome diventa Ettore Tagliaferri, probabilmente per problemi di censura-; quando la relazione diventa di pubblico dominio, la famiglia rapisce Giovanni convinta di doverne curare l’omosessualità, internandolo in una casa di cura dove gli viene praticato l’elettroshock, e porta in tribunale Braibanti, che verrà condannato a nove anni di carcere, ridotti poi a quattro con la condizionale. Per il poeta si levarono le proteste di intellettuali e politici, tra cui Umberto Eco e Marco Pannella, e si gridò allo scandalo per aver camuffato un processo contro l’omosessualità con il reato di plagio. Il reato, previsto dall’art. 603 del codice Rocco, prefigurava lo stato di soggezione di un individuo al potere altrui. La norma fu poi dichiarata incostituzionale nel 1981.
“Il signore delle formiche” è un manifesto dell’engagement come piaceva al Novecento ossia una mistura di letteratura e di ideologia. Il film ha una cesura di grande impatto: Susanna, la madre di Braibanti (una bravissima Rita Bosello), si accascia al centro di una piazza deserta e assolata dopo aver trovato la scritta “casa del culatòn” accanto al portone. Quell’immagine, sospesa tra un certo sorrentinismo e i filtri western alla Sergio Leone, spezza in due la storia e lo stile della narrazione. Il racconto della nascita dell’amore tra il professore e l’allievo è denso di poesia e non solo recitata. La prima parte è un film sull’amore e sulle passioni che intreccia: rivalità, gelosia, invidia, ricerca della bellezza, creatività (perché si sa che arte e amore sono un binomio quanto eros e thanatos), immedesimazione nella natura. Lo sfondo della campagna emiliana attraversato in bicicletta da Ettore (Leonardo Marchese) e dal fratello Riccardo (Davide Vecchi) si immette nella villa dirupata ma resa viva da giovani e formiche, una sorta di comune dove Braibanti creava i suoi spettacoli e allevava gli insetti. Amelio insiste su un’ambientazione bucolica che smorza l’erotismo e lo sublima in un orgasmo intellettuale tra i due amanti, dando ragione a Natalia Aspesi quando lamenta l’assenza di baci alla Mostra di Venezia 2022.
E’ proprio l’ellissi del sesso, affidato a un abbraccio tra Aldo ed Ettore sul letto della pensione romana prima del rapimento del giovane, a caricare di sovversivismo la pellicola di Amelio.
Il regista, puntando sull’amore, inchioda sul banco degli imputati il pregiudizio dei giudici e un certo perbenismo cattocomunista che imperava nell’Italia post boom economico e che stravolse e corruppe la rivoluzione sessantottina. Amelio fa del processo a un intellettuale il paradigma di un imperante conformismo come cifra della società italiana ma, ancora di più, usa la storia di Braibanti come esempio eclatante della doppia morale della Sinistra. Quando la Sinistra era Sinistra, ossia quando c’erano il PCI e L’Unità, e nel pieno della contestazione operaia e studentesca, un processo per plagio, per un reato del fascista codice Rocco, fa da cartina tornasole di quella superiorità intellettuale e morale, di cui l’intellighenzia progressista è carnefice e vittima al tempo stesso. I duelli verbali tra il cronista Ennio Scribani (un Elio Germano con poca originalità interpreattiva) e il direttore del giornale del Grande Partito Operaio, come viene detto ironicamente il PCI, con la cugina attivista, interpretata da Sara Serraiocco, o con lo stesso Braibanti sono lacerti di un dibattito culturale e sociale che, in punta di attualità, fisseremmo nell’opposizione cromatica rosso e nero. Solo che il nero pare uscirne, se non bene, almeno con una patente di disarmante chiarezza. L’ipocrisia è un vizio comune della politica ma ai guardiani della democrazia va riconosciuta un’interna abitudine ginnica alla polemica, alle accuse, alla denuncia.
Amelio denuncia e prende sulla sua cinepresa il carico di una visione onesta e fortemente laica delle discrasie etiche della società italiana, lancia -com’è sacrosanto compito dell’artista- una battaglia di idee in forma di poesia (la metafora delle formiche svela il contrasto tra individualismo e collettivismo ), affida alla sua regia, avara di piani sequenza, e alla fotografia del figlio Luan Amelio Ujkaj l’atmosfera opprimente che grava sui volti dei personaggi, colti in continui primi piani a leggerne una metamorfosi propria dell’espressionismo pittorico, come grava sugli ambienti chiusi da portoni, finestre, sbarre.
Il banco degli imputati, l’aula giudiziaria, le scalinate del tribunale dominano nella seconda parte del film consegnando la grammatica cinematografica alle antitesi aperto/chiuso, libertà/prigione, luce/ombra. All’ombra sono consegnati tutti i personaggi. L’ombra disperata e cupa della madre di Ettore, interpretata da un’intensa Anna Caterina Antonacci. L’ombra fatale di Ettore. Annullato nella realtà da un numero impressionante di elettroshock che ne intaccarono irreversibilmente l’equilibrio psicofisico, abbandonato dalla famiglia dopo il processo, impossibilitato a mettersi in contatto con Aldo, il personaggio subisce una sorte in parte analoga. Il riscatto delle ultime inquadrature che chiudono a cerchio il film (dai versi d’amore ai versi d’amore, dagli sguardi agli sguardi, dalla campagna alla campagna), lascia posto all’amarezza. Anche per Amelio come fu nella cronaca del tempo, il centro è Braibanti e non Ettore ovvero chi di quella truce omofobia fu la vittima prima.
E in forza di questo limite il film acquista in commozione e lirismo. Lirismo nobilitato dalle musiche di Nicola Piovani. Lirismo che affiora intermittente nel protagonista grazie a una superba interpretazione di Luigi Lo Cascio.
L’interpretazione di Lo Cascio è la sineddoche dell’intera operazione di Amelio. Un susseguirsi immobile di ritmi: impassibile, profondo nello sguardo e isterico nelle sfuriate, ieratico talvolta come un francescano stizzito – “sorella formica” è una sua espressione- Luigi Lo Cascio rende alla perfezione l’intensità di un poeta che seppe avere la virtù del silenzio e dell’amore, la dignità della scelta e seppe pacatamente irridere il perbenismo dei giudici. Lo Cascio- Braibanti interrogato in aula non può non evocare Lo Cascio- Contorno ma solo per ammirare la versatilità dell’attore di realizzare con la faccia e la parola l’equazione corpo- dramma, che è la cifra della sua arte, del suo modo di fare teatro e cinema. Le foto di Braibanti ci rimandano a un fisico pasoliniano: Lo Cascio lo assume completamente. Pasolini è l’ombra incombente in “Il signore delle formiche” ed è lecito pensare che questo film doveva nascere nel centenario della nascita del poeta di Casarsa. Per la storia, la vita, la cultura, lo scandalo e la violenza che abitarono il corpo e la mente di Pasolini. Luigi Lo Cascio fa rivivere la pacatezza e la repulsione, la malia e lo scatto dei gesti, la seduzione con cui Pasolini catturava i ragazzi e i lettori e Braibanti – Lo Cascio cattura Ettore e lo spettatore trascinandoli, insieme a lui, fuori dall’illusione della purezza.
La forza del film sta nel disincanto edenico scaturito dal brutale bigottismo dei personaggi che ruotano intorno alla storia di Aldo ed Ettore. Uno scarto verso la metabolizzazione artistica di quello che rischiava di essere un film solo smaccatamente politico o un film di ventiquattro volte verità, per parafrasare il maestro Jean-Luc Godard. Ma la traduzione del fatto in narrazione è ingombrata da un alto tasso di citazioni: cinematografiche (una patina di Bellocchio che questo film l’ha voluto e persino Luca Guadagnino di “Chiamami col tuo nome”), letterarie (Shakespeare e Penna, per esempio, Pasolini tout court), artistiche (il concettualismo delle fotografie di Luca Ghirri con il sole accecante dei quadri di De Chirico o il modernismo degli oggetti e delle sculture citate dentro gli spazi del Torrione) . Il film appare a tratti freddo e in cerca di una propria identità artistica. Sembra sfiorare talvolta il cinema a tesi, nonostante il ventaglio di emozioni suscitate dai due protagonisti, personaggi e attori. E dalla Mostra del Cinema di Venezia Amelio è tronato a mani vuote: una coppa Volpi per Lo Cascio era più che auspicabile.
La solita bojata pseudo-progressista e superficialmente irriverente. Viva il ‘perbenismo’!!!