Stefan George, il Vate, il Meister. Un titano in lotta contro il proprio tempo, contro la modernità, contro l’ascesa delle plebi. Cantore del sacro e latore, con la propria opera, del tentativo inane e inattuale, dati i tempi ultimi nei quali ebbe la ventura di vivere, di risacralizzare il dire poetico e, con esso, il mondo. Queste assertive definizioni, trovano conferma in una recente pubblicazione. Ci riferiamo a Stefan George, Manifesto (1912), volume comparso, con testo tedesco a fronte, nel catalogo delle edizioni Ar, per la cura di Umberto Colla, al quale si deve l’illuminate saggio conclusivo, Contro la “barbarie illuminata a gas” (pp. 70, euro 15,00). In realtà, il testo in questione apparve in origine quale “introduzione dei curatori” al terzo e ultimo numero (1912) della rivista annuale del Kreis. La paternità georgeana del pezzo, la si evince, oltre che dai contenuti, dallo stile limpidissimo pur nella ridondanza espressiva, ed è stata rivelata da Hildebrant, insigne discepolo “platonico” del Meister. Questi riferisce che George gli aveva confessato di essere alla ricerca di un avvocato, che avrebbe dovuto difenderlo da possibili accuse relative a un articolo che andava scrivendo, centrato su una critica radicale del moderno: l’introduzione, appunto, all’ultimo numero dello Jahrbuch für die geistige Bewegung.
Si trattava di un testo articolato in più punti, il che spiega la corretta scelta editoriale di titolarlo Manifesto. Peraltro, esso fu scritto dal Vate, in un periodo in cui la cultura europea era scossa dai manifesti della avanguardie (nel 1909 era uscito il Manifesto del futurismo). Il tratto davvero rilevante e qualificante lo scritto di George, è di essere una invettiva antimoderna, le cui tesi sono sostenute da una prosa sferzante, a momenti lirica e da un piglio esegetico atto a individuare gli snodi critici delle “sorti progressive” cui andava incontro l’umanità. George mette, innanzitutto, in discussione l’idea di sviluppo lineare della storia, opponendo a essa: «che riteniamo una grave e diffusa malattia universale dello spirito, la visione ciclica, oggi dimenticata» (p. 11). In secondo luogo, il poeta coglie come le certezze della società progressiva, galleggiassero su un diffuso sentimento d’insicurezza: «neppure allo sguardo più offuscato può sfuggire la tristezza generale, che si propaga a dispetto di tutti i miglioramenti esteriori» (p. 11). La scienza moderna non concede al singolo effettivo potere sul reale e se applicata allo studio del mondo classico, mira a depotenziarlo, per cui: «se il grecista dalla sua onnivora conoscenza dei dati fattuali non è indotto ad altro che a ridurre a poche formule giornalistiche il mondo antico […] allora abbiamo il diritto non soltanto di disprezzare questa scienza, ma di combatterla» (p. 15).
La realtà contemporanea, oggi come allora, da ciò la straordinaria attualità di questo testo inattuale, è il regno della mediocrità, tutto, rileva in queste pagine George, è dominato dal numero, dalla bruta quantità: «Lo stato vuole proteggere i deboli […] ma […] opera un indebolimento […] dell’intero genere umano: lo stato proibisce la schiavitù, ma fa di tutto perché ognuno divenga uno schiavo» (p. 19). George, nel 1912, aveva chiara contezza del tratto totalitario delle democrazie liberali, questa sua diagnosi è una profezia che si sta pienamente realizzando ai nostri giorni. Né mancano, nel Manifesto, elementi di critica sociale e di costume: la femminilità è stata, nella donna moderna, sterilizzata, così da deprivarla dell’antico potere generatore di eroi. Ogni aspetto della vita è andato plebeizzandosi. Questo è il risultato del diffondersi della visione del mondo protestante. Il protestantesimo è letto quale: «presupposto dello sviluppo liberale, borghese, utilitaristico» (p. 27), e perfino il cattolicesimo sta divenendo “protestante”. Siamo entrati nella fase finale della modernità, sostiene George e: «quando attraverso commercio, giornali, scuola, fabbrica, caserma l’infezione cittadina progressista sarà penetrata fino nei più remoti angoli della terra e si sarà definitivamente installato il mondo satanicamente capovolto, il mondo dell’America, il mondo delle formiche» (p. 33), tutto sarà compiuto. Questa la realtà nella quale viviamo.
Negli anni Novanta del secolo XIX, George aveva già maturato questa radicale opposizione al proprio tempo. Come rileva Colla, probabilmente, momento dirimente della sua formazione antimoderna deve essere individuato nella frequenza dei “Cosmici monacensi”, Klages e Schuler, strenui difensori del “paganesimo femminile”, di cui aveva mirabilmente detto Bachofen. Il Meister non riuscì, come invece fecero i due “Cosmici”, a spingersi alla venerazione degli “altari abbandonati” degli antichi culti, ma operò, a suo modo, affinché la Grecia tornasse a far risuonare la sua voce in Germania. In fondo, la sua professione di fede cattolica fu puramente formale: pensò alla Chiesa di Roma quale custode del: «principio eternamente vitale, il principio pagano» (p. 45), nonostante avesse perfettamente compreso le intenzioni “moderniste” delle gerarchie ecclesiastiche. Fu un grave errore. Per questo, la sua proposta ha avuto carattere ambiguo, egli fu meno coerente di Schuler e Klages.
Il Manifesto (1912) è, comunque, oltre che testo di notevole bellezza, uno squillo di tromba capace di risvegliare le intelligenze spente e sopite dei nostri giorni, cloroformizzate dalla “cultura della cancellazione”, ultima espressione dell’“intellettualmente corretto”. George è autore cui debbono guardare quanti non vogliano supinamente subire l’incanto onirico della post-modernità.