Nei testi vedici il tema tecnologico spunta ovunque. È un po’ paradossale per chi come noi, figli di tutto ciò che è post, ricerca nell’Essere quello che il distaccato ottimismo titanico jungeriano non ha saputo dare.
Insomma ammettiamolo: se ci troviamo in queste acque lo dobbiamo al fatto che anche noi, sì-sì noi, si sia scesi a patto con l’idea perdente di progresso. Ci siamo anche noi illusi che con l’Era dell’Aquario saremmo stati tristi, consapevoli, disumanizzati, ma con le macchine volanti e la cura per il cancro.
Così, mentre oggi che il grande balzo nucleare sembra un lontano ricordo, ed il romanticismo alla Blade Runner sfiorisce di fronte alle mense con gli insetti, risfogliamo i Veda alla ricerca di quel senso mancante fra quel che furono gli Dei e l’Essere sempre atteso.
Ma guarda, ironia della sorte, in quei testi di cinquemila anni fa è tutto un roboare di motori atomici, macchine spaziali, armi nucleari: caspita ed io che cercavo di capire l’agire senza agire, la connessione senza volontà nel Brahama.
A vedere bene queste genti di tradizione aria la tecnica la conoscevano assai bene. Ed era probabilmente in un’inevitabile quanto affascinante connessione con l’aspetto metafisico.
Ecco, l’Alabarda spaziale – che poi assomiglia a una ascia bipenne – non è ontologicamente in chiave dicotomica con il Kali Yuga. Senza spirito in ordine, non c’è tecnica in ordine. Così come senza Ercole, Prometeo diventa il fratello idiota, Epimeteo. E l’età del ferro non è forse l’età degli idioti?
Può essere che Heliopolis sorgerà quando Kalki arriverà, con la sua spada fiammeggiante, in una guerra cosmica senza precedenti. Forse per allora rivedremo i Vimana e le popolazioni Arie osservare in cielo metalliche forme spartane.