Ritornando per un istante al 1° dicembre 1640, c’è da dire che la notizia della Restaurazione impiegò più di un mese a giungere in Brasile. Lo prova il fatto che Padre António Vieira, dicendo messa il 6 gennaio del 1641, alla presenza peraltro del viceré, il marchese di Montalvão, lodò la reazione armata di Filippo IV di Castiglia – «l’invittissimo monarca Filippo IV, il Grande» [VIEIRA, 1959 (Sermão de Dia de Reis): II, 63-69 (94)] – contro i sovversivi della Catalogna. Riferisce il padre gesuita:
«L’insurrezione della Catalogna ha messo in molta apprensione la Spagna; ma quando Sua Maestà (Dio lo benedica) andrà in guerra, la stella nascosta apparirà, e possiamo avere grandi speranze di un felicissimo successo» [IBID.].
Sempre in quella occasione, il gesuita si riferì, pur se indirettamente, ai sebastianisti, i quali erano soliti citare le strofe di Bandarra nelle loro preghiere per il ritorno del Velato. Lui, Vieira – sebastianista, per così dire, pentito –, riteneva quel vaticinio una stupida chimera, visto che Filippo IV aveva ereditato tanto la corona quanto il sangue di Sebastiano: «Ereditò, disse, e, secondo la teologia di san Paolo, chi dice eredità presuppone la vera morte» [IBID.: 64]. Ciò nel senso che ereditare qualcosa presuppone a tutti gli effetti la morte, quella vera – come riferisce il padre gesuita – di colui (nel caso specifico, Sebastiano) che ha lasciato in eredità questo qualcosa.
Una volta giunta in Brasile la notizia dell’avvenuta Restaurazione, possiamo immaginare quanto grande sarebbe stato lo sconcerto, l’imbarazzo da parte di Padre António Vieira. Visto che solo pochi giorni prima aveva lodato in pubblico un re che era stato, e già da più di un mese, deposto dal trono portoghese, diventando un nemico del Portogallo. Per rimediare in qualche modo a questa sua gaffe, iniziò d’immediato a disporre le cose in modo da recarsi a Lisbona, così da congratularsi personalmente con il nuovo monarca. Difatti, in quanto amico del viceré, Vieira ottenne l’autorizzazione a far parte di una delegazione destinata a portare l’adesione della colonia brasiliana a Giovanni IV [cfr. HERMANN, 1998: 233].
Giunto in Portogallo nell’aprile del 1641, subito alla prima udienza che il padre gesuita ebbe con il nuovo sovrano s’instaurò una profonda empatia fra i due. Ciò comportò per Vieira l’ingresso nel mondo della politica di palazzo e delle missioni diplomatiche, i cui esiti, nella maggior parte dei casi, sarebbero stati fallimentari. Un mondo fatto sì di potere, ma, almeno per lui, per nulla idilliaco.
Il padre gesuita, una volta conquistata la totale fiducia di Giovanni IV, ebbe un’ascesa politica tanto rapida quanto il numero di nemici che si procurò, i quali, riarsi d’invidia, tentarono in tutte le maniere di metterlo in cattiva luce con il sovrano [cfr. CIDADE, 1985: 27-49]. Tuttavia, solo dopo la morte di Giovanni IV, occorsa nel 1656, questi nemici avrebbero consumato in pieno la loro vendetta, contribuendo a che Vieira fosse imprigionato, processato e condannato per eresia dal tribunale inquisitorio [cfr. IBID.: 73-94] (11).
Il primo sermone di Padre António Vieira a Lisbona venne tenuto il 1° gennaio del 1642 nella cappella del palazzo reale. Fu un sermone di natura prettamente politica, visto che la Castiglia non si era per nulla rassegnata alla perdita del Portogallo; al contrario, aveva iniziato a metter mano a una guerra armata e diplomatica che sarebbe durata quasi cinquant’anni, fino al febbraio del 1688. In quel frangente, un sermone politico a favore del nuovo sovrano non poteva che essere antisebastianista [cfr. VIEIRA, 1951-1954 (Sermão dos Bons-Anos): X, 153-189].
Vieira conosceva assai bene la natura di coloro che erano in stretta comunione con la fede sebastianista. Da qui il grande sforzo da lui profuso nel cercare di far sì che i sebastianisti ortodossi – i quali rappresentavano un vastissimo settore dell’opinione pubblica portoghese di allora – appoggiassero Giovanni IV, il cui trono era ancora traballante. Il padre gesuita, quindi, non disprezzava affatto la loro credenza, solo tentava di convincerli che era proprio Giovanni IV il Velato delle profezie di Bandarra. In sostanza, scrive Jaqueline Hermann,
«Vieira affermava che i sebastianisti non avevano saputo comprendere il messaggio di Bandarra, poiché il Velato atteso delle loro credenze doveva essere non Sebastiano morto, ma Giovanni IV vivo» [HERMANN, 1998: 234].
È di certo notevole il modo di come Vieira strutturi la sua argomentazione per dimostrarlo, in particolare allorquando stabilisce l’analogia fra il caso del popolo portoghese che va alla ricerca del suo re e quello di Maddalena che va alla ricerca di Cristo.
Così come in occasione del Sermão de S. Sebastião, Padre António Vieira architetta il suo discorso sulla contrapposizione fra apparenza ed essenza e, nel farlo, ancora una volta ricorre alle Sacre Scritture:
«Morto Maddalena cercava Cristo nella tomba, e la perseveranza e l’amore con cui si ostinava a cercarlo morto, fecero sì che il Signore le asciugasse le lacrime e le si mostrasse vivo. Questo è per noi un grande esempio! Come Maddalena, con il suo amore cieco, piangeva all’ingresso della tomba di Cristo, così il Portogallo, sempre innamorato dei suoi re, si attardava al sepolcro del re Sebastiano, piangendolo e sospirandolo; e come Maddalena aveva Cristo, a un tempo, di fronte a sé e vivo, e lo vedeva con i suoi occhi e gli parlava senza riconoscerlo, perché velato e dissimulato, così il Portogallo aveva il re, nostro signore Giovanni IV, di fronte a sé e vivo, e lo vedeva e gli parlava senza riconoscerlo» [VIEIRA, 1951-1954 (Sermão dos Bons-Anos): X, 167-168].
Quanto a Bandarra, Padre António Vieira aveva la certezza che fosse il profeta – «profeta maggiore» – non solo della Restaurazione ma anche della concretizzazione dell’Impero di Cristo sulla terra. Una convinzione, questa, che fu alla base, e durante molti anni, di quella «elaborazione attenta dei principi sui quali avrebbe strutturato i suoi trattati profetici» [HERMANN, 1998: 235]. Trattati – ebbene ricordarlo – su cui si sono soffermati molti studiosi: João Lúcio de Azevedo, António Sérgio, Hernâni Cidade, António José Saraiva, José van den Besselaar, Pinharanda Gomes, António Quadros, Maria Leonor Carvalhão Buescu, solo per citare i più autorevoli. Chiaramente, le tesi di questi e altri studiosi vieiriani – è il caso anche di Fernando Pessoa, nonostante la natura frammentaria dei suoi testi sulla materia – non sempre collimano. Sarebbe interessante analizzarle e confrontarle; ma, come ben si comprende, è assolutamente impossibile farlo in questa sede.
L’espressione ultima delle idee di Vieira sulla materia profetica ed escatologica (idee che sono sostanzialmente – mi si passi il termine – un concentrato, seppure altamente elaborato e personalizzato, di più concezioni profetiche ed escatologiche: dalla concezione biblica dei cinque imperi a quella agostiniana delle Sette Età; dalla concezione millenarista o gioachimita delle Tre Ere a quella “bandarrica” del Re Velato) sarebbe stata resa pubblica molto dopo i primi anni della Restaurazione. Nel frattempo, il padre gesuita si occupò di politica concreta, rivolgendo la sua attenzione più che altro verso due direzioni: negoziare con i Paesi Bassi la restituzione di Pernambuco (il che gli valse da parte dei suoi nemici l’accusa di traditore, poiché la maggioranza dei notabili del regno non era affatto a favore di un accordo con il nemico ma, al contrario, auspicava una soluzione di forza, armata, così da liberare definitivamente il Brasile dagli Olandesi) e la difesa del ruolo occupato nella società portoghese e brasiliana dai giudei convertiti e dagli ebrei esuli.
Quanto a questa ultima direzione politica, c’è da dire che la difesa di Vieira nei confronti dei giudei, convertiti o meno, non deve essere vista come una presa di posizione dettata da sole ragioni pragmatiche e contingenti, ossia, che il Portogallo epocale non potesse fare a meno del loro apporto economico. In realtà, tale agire da parte del padre gesuita rientrava in una elaborazione, a un tempo, politica e dottrinaria, che vedeva il Portogallo come luogo della concretizzazione della profezia del Quinto Impero – che altro non era che il Regno compiuto di Cristo in terra. Un’elaborazione alla quale devono aver contribuito di certo gli stretti contatti che il padre gesuita ebbe, nel corso della sua azione diplomatica, con le comunità ebraiche europee [cfr. IBID.: 236]. Soprattutto ad Amsterdam, dove, nel 1646, visitò una sinagoga e strinse rapporti di amicizia con il rabbino di origine portoghese Menasseh Ben Israel (1604-1657), autore di una vasta opera (in latino, ebraico, castigliano e portoghese) che tratta di argomenti vari: pastorali, filosofici, esegetici e messianici. Fra i suoi libri relazionati con la messianologia è da evidenziare Esperança de Israel (Amsterdam, 1650) (12), titolo che richiama molto da vicino quello del già citato trattato vieiriano (Esperança de Portugal, Quinto Império do Mundo), spedito a mo’ di lettera, nel 1659, a Padre André Fernandes.
Nonostante tali somiglianze (le quali, secondo alcuni studiosi – è il caso, ad esempio, di António José Saraiva – rafforzerebbero la tesi di un Vieira alla ricerca di una conciliazione fra la religione cristiana e la religione ebraica) (13), gli obiettivi dei due scritti erano molto diversi, poiché i rispettivi autori erano portatori di due concezioni differenti circa l’avvento del Quinto Impero. Scrive Pinharanda Gomes:
«La messianologia di Menasseh si basa sull’esegesi profetica, in vista dei segni dei tempi. Legge i segni secondo le profezie, piuttosto che concentrare le profezie nei segni, che fu l’errore decadente dei messianismi successivi, compreso l’equivalente nazionale, il sebastianismo. Isaia e Daniele sono le guide preferite e, in esse, l’autore cerca l’illuminazione degli enigmi della storia. Israele fu liberata da Babilonia mediante una visitazione del Signore, ma la liberazione si dimostrò imperfetta; fu un passo verso una possibile liberazione, ma il peccato si oppose alla sufficienza divina, che rimandò il progetto.
L’esegesi profetica è tipologica e, non contemplando le figure, analizza gli eventi. La tipologia cristiana insiste sull’analogia dell’“uomo dei dolori” con il Cristo; la tipologia ebraica presta attenzione all’analogia con il popolo di Israele. Se Israele non è libera e soffre, l’uomo dei dolori del testo di Isaia è il popolo. L’uomo dei dolori è una prognosi dello stato ebraico prima della redenzione. Menasseh rimane fedele alla messianologia antica, sebbene mostri segni di una speranza a breve termine, da un punto di vista di storicità immediata; segni, questi, che sono quelli della lotta, per dare agli ebrei uno status di stabilimento in America» [GOMES, 1981: 309- 310].
Ciò, soprattutto, per il fatto che Menasseh ben Israel pensava che gli indiani d’America avessero un’origine ebraica, in quanto li riteneva discendenti da una delle dieci tribù perdute di Israele (14). Oltretutto,
«Menasseh coglie le opportunità per esorcizzare i tempi e le circostanze. Fece il possibile per aprire le porte della Svezia agli ebrei, pur senza ottenere risultati positivi (15); e fu grazie al suo impegno che l’Olanda divenne il centro per la diffusione degli ebrei in altre parti del mondo. C’è un parallelismo con la vita portoghese; i portoghesi s’irradiano da Lisbona in cerca di terre; gli ebrei di origine ispanica s’irradiano da Amsterdam in cerca di vita in queste stesse terre. La competizione messianica fra Israele e Portogallo può essere letta, in termini di semplice storia, nella competizione mercantile e territoriale del Portogallo e dell’Olanda» [IBID: 311].
Quanto a Vieira, ancora Pinharanda Gomes afferma che
«Nello scrivere “Esperanças de Portugal”, il gesuita fa concorrenza all’ebreo, autore di “Esperança de Israel”, a meno che, segretamente convinti l’uno dall’altro, Israele e Portogallo non fossero parole diverse per designare, nella mente di entrambi, lo stesso soggetto. Tuttavia, l’ipotesi è meno percorribile, poiché il gesuita sa che il Messia degli ebrei è molto diverso dal Messia dei cristiani. Il primo è simulato e immaginato dagli stessi ebrei, senz’altra realtà che quella della finzione e dell’immaginazione; al contrario, il Messia dei cristiani si è palesato.
In questi due aspetti, Vieira differisce da Menasseh: credenza nella messianicità di Gesù e predestinazione del Portogallo» [IBID: 319].
A questo punto, poco importa chiedersi chi fosse in realtà il Velato per Padre António Vieira: se Cristo o un semplice discendente diretto di Emanuele I (16). Indiscutibilmente – sempre nelle parole di Pinharanda Gomes – «Vieira è un avversario di Menasseh. Il gesuita legge le profezie di Bandarra e le applica al Portogallo, in opposizione a Israele» [IBID.: 318].
In effetti, nella sua non conclusa História do Futuro, il cui sottotilo – e non per caso – è Esperança de Portugal & Quinto Império do Mundo, Padre António Vieira scrive:
«Ma mi chiederà forse qualche emulazione straniera (a quelle portoghesi non rispondo): se l’impero atteso, come riferito nello stesso titolo, appartiene al Mondo, perché le speranze apparterranno solo al Portogallo e non all’intero mondo? La ragione (chiedo scusa allo stesso Mondo) è questa: perché la parte migliore nonché la più gloriosa dei fortunati futuri che sono attesi, non solo apparterrà alla Nazione portoghese, ma sarà unicamente e singolarmente sua. Il Portogallo sarà il soggetto, il centro, il teatro, l’inizio e la fine di queste meraviglie; e i loro strumenti prodigiosi saranno i Portoghesi» [VIEIRA, 1951-1954 (História do Futuro): VIII, 17-18].
Ecco qui spiegata la grande rivoluzione di Padre António Vieira, il quale, dopo aver effettuato una specie di ascensione dottrinale in senso politico e filosofico, si guarderà bene dal ridurre il sebastianismo (o giovannismo che sia) a una tradizione, per così dire, di credenza passiva. Al contrario, lo ripenserà come una vera e propria azione all’interno della Storia, come una cultura e un progetto di cambiamento dell’ordine mondiale.
Nel corso dei secoli, vari pensatori portoghesi si muoveranno lungo questa stessa direttrice. È il caso di colui che possiamo ritenere il massimo e più riuscito discepolo di Padre António Vieira: Fernando Pessoa [cfr. PESSOA, s. d. (1986): 103-182].
Note
(11) Quanto specificamente al processo intentato contro il padre gesuita, si veda: VIEIRA, 1957.
(12) Come ci informa Pinharanda Gomes, molte delle notizie fornite dai biografi su Menasseeh ben Israel – il cui nome portoghese, che mantenne sempre accanto a quello ebreo, era Manuel Dias Soleiro – sono congetturali e, quindi, contraddittorie: «Tutto è oscuro, ancor più perché egli stesso confessò di chiamarsi Manuel Dias Soeiro e di provenire dall’isola di Madeira, essendo nato a La Rochele, durante la fuga dei suoi genitori. Di fronte a tale contraddizione, accettiamo quanto segue: i genitori di Menasseh appartenevano alla famiglia ebrea madeirense Soeiro. Il bambino fu concepito a Lisbona, ma sarebbe nato in esilio. Crebbe a Amsterdam e apprese la lingua portoghese dai suoi genitori, secondo l’usanza» [GOMES, 1981: 303-320 (303, nota 1)]. Pur presentando molti dati ipotizzati, la biografia più completa di questo «ebreo esiliato dal Portogallo» – che divenne uno dei massimi portavoce, e non solo in Olanda (in Inghilterra, ad esempio, elaborò un suo progetto per la riammissione degli ebrei, da dove erano stati espulsi nel 1290, presentando al Parlamento due petizioni, nel 1651 e nel 1655, sebbene senza esito positivo), del mondo ebraico al cospetto di quello dei cristiani – è quella di ROTH, 1975. Si veda anche: KAPLAN et alii, 1989.
(13) «Gli incontri con Menasseh ben Israel furono molto importanti, poiché Vieira poté conoscere l’ebraismo e discutere con un sapiente studioso ebreo una possibilità di accordo fra le due religioni. Vieira tornò da Amsterdam probabilmente con un’idea teorica più precisa dei dati del problema. Poté elaborare, in modo metodico, la concezione di una nuova Chiesa, in cui ebrei e cristiani s’incontrassero e si sentissero a casa; nonché una costruzione politica che avrebbe associato cristiani discendenti da cristiani, giudei convertiti ed ebrei portoghesi in uno stesso destino storico di dimensione universale» [SARAIVA, 1992: 73-107 (107)].
(14) Occorre notare come già Bandarra nelle sue Trovas inserisca il tema dell’apparizione delle tribù perdute di Israele. Questo in occasione del «Terzo Sogno», in cui egli sogna la risurrezione e la liberazione di coloro che appartenevano alle tribù di Dan, Ruben, Simeone, Neftali, Zabulon e Gad, e che marciano a cavallo verso Gerusalemme cantando lodi in onore di quella città, di Betlemme, del monte Sion e del fiume Giordano [cfr. BANDARRA, 20006: 75-87 (77-78: strofe 109-116)]. Del resto, la conferma di questa profezia era stata fatta nel corso della relazione orale tenuta, il 18 luglio 1644, nella sinagoga di Amsterdam (relazione poi messa per iscritto e debitamente autenticata), da un mercante portoghese, nato a Vila Flor, António de Montezinos (divenuto ebreo col nome Aarão Levi), che era tornato dal continente americano dove si sarebbe imbattuto, sugli altopiani della Colombia, nella tribù di Ruben, identificata in una tribù di indiani che recitava preghiere in una lingua «che incorporava termini deuteronomici» e praticava rituali mosaici, come la circoncisione. Menasseh ben Israel difese l’autenticità e la veridicità della relazione, «in virtù del finalismo soteriologico del suo messianismo», e si dedicò a farla circolare e conoscere nel mondo intero [cfr.: GOMES, 1981: 312-313; SARAIVA, 1992: 87].
(15) Lo stesso occorse – come già riferito – in Inghilterra. Si veda la nota 12.
(16) Da notare che, dopo la morte di Giovanni IV, Vieira avrebbe attribuito il ruolo di Velato: nel 1664, al re Alfonso VI [1656-(1667) 1683] – «[…] il vero Velato profetizzato è il re – che Dio lo protegga – Alfonso VI. […] ne sono del tutto persuaso» [VIEIRA, 1997 (Carta XVI. A D. Rodrigo de Meneses. 1664 – Março 3): II, 38-40 (39)]; nel 1684, al re Pietro II [(1667) 1683-1706] – «Il trionfo totale e la distruzione dell’impero ottomano è riservata a un re portoghese; e possiamo probabilmente ritenere che sarà l’attuale sovrano Pietro II, non solo perché attestato da tutti coloro che con tanta eminenza lo appoggiano, a livello di religione, valore e particolare inclinazione, contro i Turchi; ma anche per essere indicato come secondo quanto al nome in quel testo [il riferimento è alle «Trovas» di Bandarra] che tanta preoccupazione ha dato ai sebastianisti e ad altri settari: “Dei quattro re con lo stesso nome, il secondo avrà la gloria della totale vittoria”» [IBID. (Carta CCIV. A Diogo Marchão Temudo. 1684 – Agosto 8): III, 522-526 (525)]; nel 1688, al principe Giovanni, primogenito di Pietro II e che visse solo pochi mesi – «Dico che questo principe fatale, profetizzato tanti secoli prima, e nato ai nostri giorni, non solo dovrà essere re, ma anche imperatore. […] E affinché meglio lo intendiamo, e farne il concetto e dargli il valore che merita, sappiamo noi quale impero è questo di cui dovrà essere imperatore quel fatale bambino, che oggi si trova nella sua culla. […] Dico che tale impero non sarà quello di Germania, né un altro di quegli imperi che finora hanno acquisito valore, o sono stati baciati dalla fortuna; ma un impero nuovo, maggiore di tutti i precedenti, non di una sola nazione del Mondo, ma universale. Che questo impero debba esistere è certo, e tale certezza è testimoniata da molte Sacre Scritture [il riferimento è principalmente al passo biblico relativo al sogno di Nabucodonosor e interpretato da Daniele]» [IDEM, 1959 (Sermão de Acção de Graças. Pelo nascimento do príncipe D. João, primogénito de SS. Majestades que Deus guarde. Pregado na Igreja Catedral da cidade da Baia, em 16 de Dezembro, Ano de 1688): V, 179-215 (202-204)]; nel 1689, al secondogenito di Pietro II, non ancora nato, il futuro re Giovanni V [1706-1750] – «Deciso e stabilito, a seguito di conferme certe e autentiche, che il primo possessore dell’impero universale sarebbe andato a prenderne possesso in Cielo, com’è accaduto effettivamente al nostro principe [il riferimento è a Giovanni, il primogenito di Pietro II]; sappiamo noi ora, dopo essersene egli impossessato in Cielo, chi dovrà essere colui che governerà, amministrerà ed eserciterà lo stesso impero sulla Terra. Forse lo stesso principe, il quale così come rapidamente si è congedato da noi, altrettanto rapidamente ritornerà a questo Mondo? No. Egli ne prese possesso, e il fratello che nascerà dopo di lui è colui che otterrà la primogenitura e succederà nell’impero. Sicché, lo stesso impero sarà comune ad ambedue i fratelli: del primo, morto, che andò a prenderne possesso in Cielo; e del secondo, vivo, che lo amministrerà sulla Terra» [IBID. (Discurso Apologético. Oferecido secretamente à rainha nossa senhora para alívio das suas saudades, depois do falecimento do príncipe D. João, primogénito de SS. Majestades): XV, 31-101 (44)].
(Fine)
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– VIEIRA, António, 1997. Cartas. Coordenadas e anotadas por J. Lúcio de Azevedo. Imprensa Nacional – Casa da Moeda, Lisboa: 3 voll.
[La prima versione di questo articolo – qui rivisto, attualizzato e suddiviso in due parti – venne pubblicata in portoghese vent’anni fa nella «Revista Lusitana» (Lisbona). Nova Série, 19-21 (1999-2001): 125-140.
Tutte le traduzioni dal portoghese, sia dei testi di Padre António Vieira che dei riferimenti critici, sono a mia cura]
Ottimo e grazie, ma attenzione: Israele è maschile, non femminile,
Inoltre un lettore attento di padre Vieira fu anche il noto Antonio Salazar de Oliveira.