In un contesto storico come l’attuale, nel quale l’informazione è concentrata sul dramma della guerra russo-ucraina, il cittadino comune può comprendere come la guerra moderna non venga combattuta, sic et simpliciter, con gli armamenti e le forze militari schierate sul campo ma come essa richieda, per essere vinta, un grande sforzo comunicativo delle parti in lotta. Questo è solo uno dei molteplici aspetti delle guerre moderne indagati, in un recente volume, da Federico Prizzi. Ci riferiamo a, Cultural Intelligence ed etnografia di guerra, comparso nel catalogo di Altravista Edizioni (pp. 217, euro 25,00). L’autore, antropologo, polemologo e storico militare dell’Università Addoun di Galkaio in Puntland, in queste pagine chiarisce, anche a beneficio del lettore non specialista, i tratti salienti dei conflitti contemporanei.
Attento studioso di geopolitica, dopo anni di ricerca trascorsi in zone di guerra, prese atto che, al fine di comprendere le ragioni dei conflitti, è necessario servirsi di una metodologia pluridisciplinare, pensata non solo su basi teoriche. Sulla sua formazione ebbe grande rilievo la lettura delle opere di Gaston Bouthoul, padre della Polemologia. Inoltre, ebbe contezza dei limiti connotanti le teorie delle Relazioni Internazionali, che rivelavano sul campo la loro incapacità di prevedere l’esplodere bellico. Solo l’approccio antropologico, la conoscenza delle tradizioni e consuetudini di un dato popolo, concede al polemologo la strumentazione necessaria per discernere le ragioni del dirompere della guerra e fornisce, per di più, mezzi di mediazione per indurre il superamento dei contrasti e delle divergenze. La ricerca antropologica militare è: «frutto di un preciso metodo etnografico di tipo induttivo» (p. 12). L’Etnologia studia le differenze e le somiglianze tra culture e società: «Ciò permette al ricercatore di connettere eventi, tempi, spazi e persone in un quadro sintetico e organico, sia attraverso i dati provenienti dalla ricerca sul campo che da quelli ottenuti da uno studio a distanza» (p. 14). L’etnologo è divenuto mediatore culturale che si insedia su un dato territorio durante e dopo un conflitto, cosicché, l’etnologia applicata: «si è trasformata in “Etologia d’Azione”» (p. 15).
Intento del libro di Prizzi è quello di delineare una nuova disciplina a supporto delle operazioni militari: «il Cultural Intelligence e un nuovo profilo professionale nell’ambito delle Forze Armate: l’Etnografo di Guerra» (p. 15). Il volume è diviso in due parti. La prima parte si basa sulle esperienze personali dell’autore, ed è preceduta dalla presentazione, estremamente attuale e interessante, dell’evoluzione culturale dei conflitti contemporanei. Il discorso si focalizza attorno a quattro tipologie di conflitti: Guerra Cognitiva, Sovversione urbana, Counterinsurgency e Compound Warfare. La seconda parte è il risultato di uno studio a distanza condotto da Prizzi in Somalia attorno all’azione del gruppo terrorista Al Shabaad e alla sua Information Warfare. Opportunamente Prizzi, rievocando la nascita di Minerva armata dalla testa di Giove, ricorda come per gli Antichi guerra e conoscenza andassero di pari passo. Nel mondo contemporaneo, dopo che tale verità era stata lungamente obliata, essa sembra ora riaffermarsi con forza.
In particolare, ciò è accaduto dopo l’attentato alle Torri Gemelle e dopo il fallimento delle operazioni di peacekeepers. Ci si chiese, in quel frangente, per quale ragione non si fosse ancora raggiunto un equilibrio geo-politico nel mondo. Le ragioni sono molteplice e complesse. Era comunque evidente che, fino ad allora, era stata trascurata: «la dimensione culturale dei conflitti» (p. 19). Infatti, nelle guerre contemporanee, anche in quella russo-ucraina, l’aspetto “cognitivo”è di assoluto rilievo: «uno degli scopi dell’attacco cognitivo è […] di screditare l’avversario, attraverso la polemica e il sospetto […] attraverso il bombardamento mediatico» (p. 21). Le parti in causa, pertanto, si accusano vicendevolmente di crimini e nefandezze. La Guerra cognitiva è guerra d’informazione: «Perdere l’iniziativa mediatica vuol dire subire sconfitte» (p. 21). Con tale modalità bellica si tende a colpire “l’ideologia” dell’avversario, la “tradizione”, l’humus delle sue consuetudini, la sua visione del mondo. Vi sono, negli eserciti, Brigate create allo scopo: la Settantasettesima del British Army, specializzata in Information Warfare. Ad essa si affianca un’unità segreta: «impiegata in operazioni coperte di disinformazione e controinformazione scoperta grazie alla diffusione di documenti classificati da parte di Edward Snowden» (p. 23).
Tali operazioni passano attraverso i Social più diffusi. Un ruolo altrettanto rilevante ha la conflittualità indotta dalla Sovversione. Essa si articola in quattro momenti: Sovversione, Insorgenza, Guerra Civile e Rivoluzione. La Sovversione non coincide con la sollevazione popolare, non è spontanea, ma indotta e preparata nel tempo. Insorgenti e Sovversivi hanno bisogno dell’appoggio e del contatto con la popolazione locale: «Un esempio in tal senso è oggi l’appoggio della popolazione della Val di Susa ai gruppi NO TAV» (p. 26). La Sovversione si basa su un mito (Le Bon-Sorel) attorno al quale si coagula un “Gruppo primario” cha dà inizio alla propaganda e che individua il supporto attivo di una organizzazione politica. Esempi di tali guerre asimmetriche sono state le Rivoluzioni Colorate e le Primavere Arabe, sulle quali agirono le teorie di Gene Sharp. In ogni caso, le forze “cospirazioniste”: «possono […] soffiare su un malessere preesistente, ma […] non crearne uno completamente ex novo» (p. 40). Negli ultimi anni abbiamo spesso assistito a casi di Counterinsurgency. Quando in un conflitto vi è un’evidente disparità di forze in campo (conflitto asimmetrico), la parte più debole è obbligata ad evitare uno sconto diretto con il contendente e quindi dà luogo a fenomeni di Insorgenza.
Tale situazione ha spesso prodotto la Compound Warfare, conflitti che: «hanno visto l’impiego combinato di forze convenzionali e irregolari in combattimento» (p. 47). Lo stiamo verificando in Ucraina. Ecco perché, al fine di giungere a mediare tra le parti, è indispensabile far riferimento al Cultural Intelligence e all’Etnografo di Guerra. E’ il ruolo in qualche modo svolto, sia pure a distanza, dall’autore stesso nel caso somalo, descritto nel settimo e conclusivo capitolo del volume.