Quando ho conosciuto Giovanni d’Afasia, contemporaneo del filosofo Plotino e dell’imperatore Massimino, la leggenda si era già impadronita della sua figura.
Si raccontava che fosse dotato di poteri taumaturgici, che avesse operato delle guarigioni, che fosse ghiotto di fichi secchi e di uva sultanina, per cui suoi ammiratori gliene portavano in gran quantità non appena potevano.
Ma la peculiarità di Giovanni consisteva in quell’austera regola del silenzio che scrupolosamente aveva osservato fin dalla nascita e che rompeva soltanto una volta all’anno e precisamente il primo venerdì di maggio. A dire il vero egli aveva cercato di comunicare questa sua decisione subito dopo venuto alla luce e tuttora gli studiosi discutono con zelo se il vagito emesso dal neonato personaggio fosse stato: «Oh! Oh!», o piuttosto: «Ah! ah!». Naturalmente i genitori non ci avevano capito un bel nulla e per anni credettero di avere un figlio del tutto muto. Finché un bel giorno con grandissimo stupore fecero la scoperta: il figlio, in perfetto idioma greco e con voce degna dei migliori oratori, teneva in piazza, tra la gente, un discorso. Per dovere di cronaca aggiungerò che non solo il contenuto, ma anche le parole del discorso erano di anno in anno sempre le stesse.
Quel discorso, covato e meditato per un intero anno, esplodeva con la forza di un uragano e produceva nell’animo degli ascoltatori un grande turbamento: almeno un paio di dozzine di loro prendevano la risoluzione di disertare le urne, di tenersi lontani dai tribunali, di non mandare i propri figli alle scuole pubbliche.
Naturalmente la fama ha il suo prezzo e Giovanni, accusato di anarchismo, fu mandato in esilio. Dopo aver peregrinato a lungo, aveva trovato asilo a Bari.
In questo piccolo borgo, abitato da pescatori e da qualche modesto mercante, mi fermai anch’io per alcuni giorni insieme ad altra gente convenuta d’ogni dove per ascoltare Giovanni. Il prodigio si compì, come previsto, il primo venerdì di maggio ed anzi ebbi modo di trascrivere il suo discorso che qua di seguito riporto:
«Cittadini! Io sono stufo delle parole.
Sono stufo delle parole vuote, superflue, artefatte, ingannevoli!
Sono stufo delle parole dei politicanti, dei giuristi, degli esperti.
Sono contro le parole dei politicanti, perché ormai sono prive di significato, ad esse non corrispondono più le speranze, i drammi, i valori della gente. Sono ami spuntati, buoni per chi vuole abboccare. Sono contro le parole dei giuristi, perché a forza di disquisire e di pontificare hanno dimenticato gli uomini e non vedono che le scartoffie. Sono contro le parole degli esperti, perché hanno imparato dai libri dei politicanti e dei giuristi.
Se si vuole vivere bene, non resta che ridere e tacere: ecco tutto!».
Terminato il discorso, Giovanni riceveva gli omaggi delle persone che lo avevano ascoltato, rideva sulle obiezioni di qualche retore, si rinchiudeva nel suo annuale silenzio.
Anch’io avevo terminato il mio soggiorno e partii. Di lì a qualche anno, ripassando per Bari, chiesi notizie di Giovanni d’Afasia e mi informarono che una notte di tempesta era improvvisamente scomparso senza lasciare alcuna traccia.
Alcuni sostengono che fu un tiro mancino dell’imperatore, che, stanco della fama di quel suddito singolare, decise di finirla una volta per tutte. Ma altri, credo con maggior credito, ritengono che Giovanni abbia compiuto un ultimo prodigio dissolvendosi negli ulivi di Puglia. Sicché andando in giro per quelle contrade, dove i silenzi sono tanto vasti da provar sgomento, è possibile a volte udire, frammischiata alla brezza, la risata di Giovanni.
(da Il burosauro e altri racconti)