All’indomani della caduta del Muro di Berlino comitati civici, privati cittadini e oppositori politici del regime della DDR impedirono che la Stasi distruggesse la cospicua documentazione relativa alle sue attività di repressione e spionaggio; il Parlamento della Germania unificata approvò in seguito una legge che consentì a milioni di persone – depredate per decenni di verità concernenti la propria sfera privata – di consultare gli archivi della polizia segreta.
Lo studioso Gianluca Falanga ripercorre nel libro “Labirinto Stasi – Vite prigioniere negli archivi della Germania Est” (edito nel 2021 da Feltrinelli) tre storie, accompagnando il lettore negli abissi della “bancarotta emotiva”, morale e materiale del comunismo con l’intensità narrativa del romanzo introspettivo e distopico.
Baldur
Condannato alla reclusione nel 1958 con l’accusa di agitazione contro lo Stato per aver letto il romanzo “1984” di Orwell, ricevuto da un amico di penna della Germania Ovest per posta (il diritto alla segretezza della corrispondenza – costituzionalmente garantito – veniva di fatto violato in modo sistematico), Baldur vive in un contesto politico-sociale simile a quello immaginato dallo scrittore britannico che, pur non potendo conoscere per ragioni anagrafiche la realtà della Ddr, si era ispirato alle esperienze del nazismo e dello stalinismo.
L’adesione del protagonista all’organizzazione giovanile del partito – tramite la quale intreccia contatti con il movimento ambientalista Wandervogel e matura effimeri propositi di trasferimento all’estero – offre l’opportunità ad un ufficiale della Stasi di proporne l’infiltrazione come spia, pochi mesi prima dell’arresto, negli ambienti giovanili della Repubblica Federale Tedesca.
Il particolare verrà scoperto solo in anni recenti dal diretto interessato che, una volta libero, rifiutò ambizioni di carriera accettando i compromessi quotidiani di un regime che si astenne dal criticare per un misto di paura, impotenza e rassegnazione, in linea con l’assuefazione di Winston Smith – il personaggio della finzione in cui in gran parte si riconosce – alla dittatura del Grande Fratello; riabilitato dal tribunale che nel 1991 annullò per abuso d’ufficio la condanna, Baldur denunciò chi all’epoca dei fatti gli aveva estorto la confessione insinuandogli il dubbio che il libro fosse stato spedito da una spia dei servizi segreti di Bonn.
L’organizzazione metodica della violenza e la sorveglianza stretta e costante della popolazione emergono quali pilastri del sistema socialista, un blocco ideologico granitico – intollerante verso qualsiasi contributo critico e costruttivo, in grado di reprimere la libertà d’opinione attraverso meccanismi perfetti di manipolazione esistenziale di cittadini isolati in una cappa di apparenza e conformismo – all’interno del quale il potere si auto-alimenta raggiungendo un obiettivo dichiarato della Polizia del Pensiero: la resa spontanea, inflitta – oltre che con l’obbedienza e la sottomissione assoluta – attraverso il dolore e l’umiliazione.
Utilizzando gli strumenti dell’intrigo e del sospetto generalizzato, la polizia segreta “non si limita a distruggere i suoi nemici…li cambia; ne cattura la mente”, cura metodicamente le modalità di reclutamento dei confidenti – a propria volta sotto ricatto per non finire in carcere, il cognato di Baldur lo segnala affinché gli venga negato il permesso di recarsi nella Germania Ovest e determina il suo arresto, salvo poi adoperarsi tardivamente per alleggerirne la posizione – e provvede alla schedatura delle individualità che presentano attitudini “ostili negative” nei contesti più disparati (familiari, di vicinato, della cerchia di amici e di lavoro), penetrando nell’intimo delle famiglie ed insinuandosi nell’alchimia dei legami sentimentali.
L’esperienza di Gilbert
Il sistema giudiziario – basato su procedimenti arbitrari e tendenziosi perché piegato a direttive ministeriali, a risoluzioni del Comitato Centrale e alle esigenze di consolidare la “legalità socialista” e il mito dell’”antifascismo di Stato”, che diffonde a giudizio dell’autore il falso storico della resistenza dei comunisti tedeschi, in realtà decimati più dalle purghe di Stalin che dal nazismo – evidenzia attraverso l’esperienza di Gilbert le proprie anomalie.
A lungo convinto che il regime della DDR – particolarmente duro più verso coloro i quali non esprimevano seria ostilità che nei confronti degli avversari dichiarati – potesse essere riformato, finisce in carcere a metà degli anni ottanta per aver tentato di diffondere in Occidente alcuni calendari raffiguranti la vita dei punk a Berlino Est; incontra alcuni anni dopo l’ex funzionario della Stasi della sezione Indagini – caduto in disgrazia e abbandonato al proprio destino dal regime – che lo aveva interrogato e fatto condannare.
Sullo sfondo di un apparente mutamento di paradigma del sistema – nel corso degli anni settanta una prudente apertura verso la comunità internazionale, specchietto per le allodole riservato ai paesi occidentali sensibili al rispetto dei diritti umani, venne puntualmente contraddetta dal significativo potenziamento delle misure occulte di “disintegrazione” e della rete informativa della Stasi, che s’infiltrò pure nei movimenti di protesta organizzata compromettendone l’operato – il protagonista riavvolge il nastro del passato, appurando dagli archivi che le “attenzioni” nei propri confronti devono essere retrodatate al periodo in cui, poco più che maggiorenne, confidò ad una collega di lavoro l’intenzione di non partecipare alle elezioni politiche.
Gilbert raccoglie in un libro le confessioni del suo interrogatore, che rivela – rimanendo nell’anonimato – le modalità di funzionamento delle strutture carcerarie e le tecniche apprese per rendere i detenuti insicuri, sfiduciati e diffidenti.
L’instaurazione di un rapporto di rispetto reciproco – reso possibile dall’ammissione di piena responsabilità da parte di chi non si giustifica nascondendosi dietro ordini superiori, consolidato da scambi epistolari regolari nel corso del tempo e dall’incontro nel luogo dei tristi ricordi dell’ex carcere di Hohenschonhausen, oggi Memoriale e principale luogo di testimonianza dedicato alla repressione comunista nella Germania orientale – non si traduce in un’amicizia, ma costituisce la cornice di interessanti riflessioni sulla complessità e sulle dinamiche della contrapposizione vittima/carnefice, oltre che sulla sorprendente labilità dei suoi confini.
Il caso Andreas
Le traumatiche conseguenze di attività finalizzate alla distruzione sistematica dell’auto-stima e della reputazione si ripercuotono fortemente a livello psicologico su Andreas, utente dal 2012 dell’iniziativa Controvento, una struttura specialistica dedita all’assistenza terapeutica di chi ha appreso verità sconcertanti dalla lettura degli archivi.
Figlio di dipendenti dell’archivio di Stato di Potsdam (il nonno partecipò alla rivolta operaia del 17 giugno 1953 repressa dalle armate sovietiche), il protagonista si ribella ben presto alle “gabbie” imposte dagli insegnamenti dell’educazione socialista: a seguito del rifiuto della domanda di espatrio e del ritiro del passaporto di navigazione, tenta la fuga verso la Baviera attraversando la Cecoslovacchia. Arrestato, viene rimandato nella DDR dove allaccia contatti con un avvocato specializzato nella gestione dei negoziati per la scarcerazione dei detenuti politici riscattati dal governo della Germania Ovest; una volta libero, si trasferisce a Berlino ma nel nuovo contesto, profondamente mutato a seguito della riunificazione, pur non incontrando difficoltà dal punto di vista materiale si sente un estraneo.
Se la narrazione si conclude con una scoperta destabilizzante (Andreas riconosce nella figura del padre il confidente della Stasi che raccoglieva informazioni dei suoi incontri a Praga con cittadini della Germania Ovest), l’autore si sofferma in parallelo sulle spinte contraddittorie di un fenomeno, la caduta del Muro, tanto spettacolare quanto improvviso e rocambolesco, modalità che soffocano sul nascere qualsiasi spazio di elaborazione di un trauma.
All’entusiasmo per la libertà conquistata e per il ricongiungimento di un popolo, alla gioia e all’euforia per le opportunità di cambiamento, fecero da contraltare un malessere profondo alimentato dalle disfunzioni di un sistema collassato per implosione, la delusione per la mancata persecuzione a livello giudiziario di misfatti e criminali che rimasero impuniti, lo stravolgimento di un ordine sociale che non maturò dal basso né per mano dei deboli movimenti dell’opposizione organizzata, la cruda realtà di una riunificazione avvenuta alla stregua di un’annessione.
Il plebiscito elettorale di Kohl e l’imposizione del marco, il mancato superamento delle diseguaglianze tra i Lander dell’Est e quelli dell’Ovest, la condizione di frustrazione della parte dei cittadini che si sentivano di “seconda classe” furono il risultato di un processo – non elaborato, bensì quasi automatico – finalizzato a riempire in fretta un inatteso vuoto politico. La rivoluzione pacifica, iniziata con le coraggiose manifestazioni di massa del 1989, si concluse ben presto con una “eclissi delle coscienze” funzionale ad una generale rimozione del passato, ponendo le basi per la disaffezione e lo straniamento di milioni di nuovi cittadini incapsulati nel sistema democratico.
Epilogo
Nel rimanere impassibile di fronte alla lettera dei genitori (con i quali non si vede più da oltre trent’anni) che lo disconoscono in quanto traditore del socialismo, Andreas – che pure esaudisce il desiderio della figlia di conoscere i nonni – percepisce la compenetrazione di opposte ideologie in un unico mostruoso agglomerato.
Il lettore viene stimolato alla riflessione su alcune tematiche distinte ma al tempo stesso strettamente collegate tra loro: dalla confutazione della teoria di Fukuyama sulla “fine della storia” all’osservazione che il regime ha potuto perpetuarsi anche senza il reale consenso di una maggioranza silenziosa né favorevole né contraria, all’evidenza in base alla quale – ormai a distanza di parecchi anni dalla fine della guerra fredda – le nuove generazioni conoscono, tranne rare eccezioni, poco o per niente la storia della Germania Est e condividono “un grande silenzio” con quelle che le hanno precedute. L’avvicendamento senza soluzione di continuità di tre esperienze – quella nazista, quella sovietica e quella della DDR, simili più che contrapposte nelle forme di dominio autoritario – ha nella sostanza conservato immutate le strutture mentali della popolazione.
Il realismo induce, peraltro, a ritenere che alcune delle minacce oggi gravanti sulle democrazie (non solo quelle in auge nelle realtà post-totalitarie) possano in buona misura derivare – senza che l’elenco abbia la minima pretesa dell’esaustività – dalle predicazioni d’odio, dall’individuazione di un nemico che giustifichi l’adozione di misure eccezionali, dalla soppressione delle coscienze, dall’annullamento delle aspirazioni e dei sentimenti dell’uomo di far parte di un organismo più grande dell’individuo, dall’omologazione delle opinioni e dall’impoverimento della lingua.