L’ambasceria inviata sotto la guida di Nestore per placare l’ira di Achille – leggiamo nell’Iliade – trovò l’eroe intento a dilettar l’animo suonando la cetra e cantando le gloriose gesta degli eroi. Come tutti i fanciulli passano nella loro crescita attraverso i medesimi stadi, così presso tutti i popoli si svilupparono le epopee dapprima come canto lirico, poi come canzone epico-lirica, e infine come epos recitativo, e tra l’aedo greco, il guzlar serbo, lo skop o rapsodo germanico e il giullare francese c’è una sorprendente affinità di atteggiamenti e d’ispirazione. Esaltavano un fatto o un personaggio, esprimevano un entusiasmo ispirato da una tradizione, da un mito, da una figura d’uomo in cui si celebravano potenziate le virtù d’una comunità. A questo eroe identificato col bene si contrapponeva in molte epopee primitive un avversario che incarnava il male, le oscure forze nemiche dell’uomo, un mostro da vincere, un drago, Grendel, e se alla fine il prode soccombeva, la sua eroica morte equivaleva a una vittoria nell’apoteosi del verso […].
Di una rinascita dell’epopea nei tempi moderni non si può parlare in realtà che dal 1954-55 quando John Ronald Reuel Tolkien, un professore di Oxford di anglosassone e d’inglese medievale, pubblicò la trilogia del Lord of the Rings […]. Egli non cerca di convertire il male con l’esempio della virtù, come fa Shelley, ma vuol debellarlo. “I draghi di Tolkien”, scrive E. Zolla, “non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare”, onde la protesta della intellighentia d’oggi, per bocca di Auden, che osservò a proposito del Signore degli anelli che non esistono esseri che obbediscano al Male assoluto, che non è possibile che una specie dotata di parola e perciò capace di scelta morale sia malvagia per natura. E se, dopo tutto, il mondo in bianco e in nero delle fiabe, con un eroe buono (Frodo) e un antieroe malvagio (il re di Mordor), un mago buono (Gandalf) e un mago cattivo (Saruman, convertito al male come Lucifero in Satana), fosse più vicino alla realtà di quanto non lo sia il relativismo dell’Apostolo della mediocrità che oggi piace ai più d’accettare?
Il mondo favoloso di Tolkien, che conosce la conviviale gaiezza e la facondia di canti del buon popolo degli Hobbit (elfi alti quattro piedi, in cui si legge in trasparenza la bonomia non disgiunta da ostinata prodezza del popolo inglese idealizzato secondo una formula Chesterton-Belloc, cattolici come Tolkien), ma anche truci popolazioni di Orchetti e di Cavalieri Neri, che vedon solo di notte e hanno un odorato finissimo, ed esseri viscidi e crudeli come quella reincarnazione di Caliban e del nano Alberico che è Gollum, il primitivo detentore dell’anello che dà il dominio del mondo. Ma la virtù di questo epos in prosa non sta tanto in una galleria ben caratterizzata di personaggi maschili (delle creature femminili solo Shelob è convincente, ma è un mostro), quanto soprattutto nella vicenda, la distruzione del fatale anello, non indegna di figurare accanto alla ricerca del Graal e l’affondamento del tesoro, simbolo di potenza, nel Reno da parte di Hagen nella Saga dei Nibelunghi; sta nell’incalzare degli avvenimenti, nelle atmosfere serene e più spesso sinistre, d’una vastità coreografica che fa pensare agli apocalittici quadri di John Martin, e nel non dichiarato ma pervadente afflato metafisico che fa passar sopra alle occasionali velleità di “alto stile”, e a certi scivolamenti nel sentimentale, il solo peccato veramente imperdonabile agli occhi degli smaliziati moderni.
*Da M. PRAZ, Rigenerazione dell’epica, Il Tempo, XXVII, n° 311, 28 novembre 1970, p. 3