Qualcuno ricorderà che nella seconda metà degli anni Cinquanta, sull’onda di un film Usa di Nicholas Ray con James Dean e Nathalie Wood che in Italia ebbe questo titolo, si parlava di “gioventù bruciata”, gli inqueti adolescenti americana che, dieci anni dopo la fine della guerra delle democrazie contro i totalitarismi, “contestavano”, per così dire a livello personale senza scendere in piazza ma avendo atteggiamenti ribellistici (alcol, droga, sballo, velocità, ricerca del rischio) verso la società in cui vivevano, in teoria la migliore possibile. Erano quelli che furono anche definiti teddy boys con tono critico negativo. E infatti, il titolo originale del film era appunto Rebel Without Cause, ribelle senza causa (“in lotta contro il mondo” senza in fondo sapere perché, che poi è diventato il titolo di un saggio che esaminava il fenomeno, e nel 2017 una canzone di Ensi).
Perché questo riferimento? Mi è venuto in mente guardandomi in giro, leggendo le cronache dei quotidiani e quelle televisive: quasi settant’anni dopo non è che si stia verificando lo stresso fenomeno, ma assai peggio. Ovviamente mi riferisco all’Italia dove non più i giovani ma i giovanissimi si “ribellano senza causa” solo per il gusto di fare ciò che vogliono, contro le minime regole del vivere civile e del buon gusto. E quel che è peggio spesso spalleggiati dai genitori che forse si rispecchiano in loro.
Le solite geremiadi di un matusa (come allora si definivano) che non capisce più niente della società in evoluzione dove vive e che non è più quella di una volta? Ma basta osservare quel che avviene con occhio de-ideologizzato per dire che qui non si esagera affatto.
Il problema è che a tutti i livelli, dai più banali ai più significativi, non si accettano e non si vogliono regole, tutti pretendono di fare quel che loro pare e piace. Passiamo da episodi minimi ma simbolicamente significativi a fatti gravissimi. Si pensi all’esagerato clamore mediatico che è sorto intorno al cosiddetto “caso Righi”, il liceo romano dove a febbraio una insegnante ha trovato una alunna che ballava in classe ripresa da un compagno di scuola con un vestito che lasciava scoperto l’ombelico e le ha detto pressappoco: “Ma credi di stare sulla Salaria?”. Frase un po’pesante (poteva solo dire: credi di stare in spiaggia?), ma si capisce bene il perché, sempre di una insegnate che si preoccupa dei suoi alunni si tratta. Sta di fatto che ad essere cicchettata dalla preside è stata la professoressa (che in futuro se ne fregherà di situazioni consimili) e non l’allieva (che si convincerà di essere stata dalla parte della ragione). E i compagni di scuola, maschi e femmine, hanno manifestato per strada in abiti provocatori. Erano dalla parte del giusto.
Ora, per non saper né leggere né scrivere, pongo due semplicissime domande. La prima: esistono regole generali del Ministero della Istruzione su come studenti e docenti devono presentarsi a scuola, che non è una spiaggia, o un parco, un night club?
La seconda: le singole scuole hanno un loro regolamento interno secondo cui ci sono certi limiti da non superare? Chessò: abiti strappati e bucati, ombelichi e spalle nude, gonne corte fino all’inguine, ciabatte ai piedi e via di questo passo? Non è certo più il tempo di giacca e cravatta, di gonne alla caviglia, ma, appunto, non si può fare in un ambiente del genere ciò che si vuole oltre il buon gusto, l’educazione e il rispetto reciproco. Se questi regolamenti, il generale e il particolare, esistono perché non si fanno rispettare? Se invece non esistono che si aspetta a emanarli per sapere a cosa fare riferimento in situazioni del genere? E’ una questione di serietà, là dove si istruiscono i giovani e li si dovrebbe preparare alla vita. (Ovviamente non è che noi, a quell’età, si fosse degli stinchi di santo, ma non certo sul piano dell’abbigliamento…)
Ma ci sono episodi ben più gravi, cruenti. Il fenomeno delle cosiddette baby-gang è all’ordine del giorno, e quanto successo a Milano l’ultimo dell’anno lo dimostra, anche sotto un aspetto diverso da quello più evidente: molestare e violentare delle ragazze in mezzo alla folla, non in un vicolo buio, vuol dire che si possiede un senso dell’impunità che dovrebbe far preoccupare ancora di più. In seguito, sempre nel capoluogo lombardo, un gruppo di ragazzini armati di coltello nel giro di poche ore ha compiuto almeno cinque aggressioni a coetanei senza un vero scopo o per derubarli. L’ètà va dai 18 ai 14 anni, da una parte e dall’altra…
Emerge allora che ormai non ci si limiti a scazzottate, ma si deve aggredire con lame piccole o grandi, cosa che una volta veniva ritenuta caratteristica dei meridionali. E in tal modo si risolvono anche questioni personali, senza differenza di sesso, le ragazze si comportano proprio come i maschi, certe volte anche peggio, e due quattordicenni si sono affrontate in un duello rusticano non siciliano ma lombardo per contendersi il “fidanzatino”. Si voleva la parità dei sessi? Ebbene, è giunta anche a questo livello. Non ci sono da un pezzo soltanto i bulli, ma anche le bulle isolate o a bande che se la prendono con le loro coetanee. Insomma, ormai: bulle e pupi.
Da dove deriva tutta questa irrefrenabile violenza giovanile? Domanda retorica e non certo solo di oggi (già se ne lamentavano gli antichi romani!), ma la cui risposta è in parte diversa da quella di ieri quando la comunicazione era più limitata e circoscritta: viviamo in un mondo da sempre di per sé violento sia reale che virtuale, ma oggi il nostro è un mondo totalmente mediatico e la violenza viene trasmessa dappertutto dai media visivi che prima era più ristretti: non solo film o fumetti che erano i principali capi espiatori, ma ora soprattutto televisione, videogiochi interattivi e in particolare la Rete che giunge sugli smartphone dei ragazzini/e sin dalla più tenera età. Ma è sempre stato così, non è un fenomeno del 2022 certamente, a parte il suo ampliarsi esponenziale.
Il problema sta allora a monte, sta nella educazione familiare e scolastica che in sostanza non sembra esista più. Il deterrente sta in quel che ti insegnano a casa e in classe, ma se padri e madri sono a priori dalla parte dei figli qualunque cosa essi facciano, se a Napoli un insegnante viene aggredito dai genitori e mandato all’ospedale perché ha osato redarguire una classe indisciplinata, non ci sono quasi più prospettive. Se a scuola una minima disciplina non si riesce a mantenere, la situazione generale non è allettante, anzi grave.
Il fatto, come si è avuto modo di scrivere in altre occasioni, è che non si vogliono più regole, non si accettano più norme basilari per una società, ognuno vuol fare ciò che gli aggrada e/o gli conviene e, quel che è peggio, non vuole accettarne le conseguenze… qualora ci fossero, il che purtroppo non sempre avviene! E se tutto questo accade a livello basso (appunto la famiglia e la scuola) figuriamoci cosa avviene man mano che si diventa adulti e si entra nella società. Avviene il caos.
Si esagera ancora? Non credo come ho già detto. Se ne pagheranno le conseguenze…
Però crescendo magari si matura e ci si rende conto che si può vivere e lavorare senza regole, codici di comportamento, disciplina, rispetto delle norme generali e specifiche, altrimenti non funzionerebbe nulla dai livelli minimi ai livelli massimi, allo Stato. E chi ha ottenuto risultati a tutti i livelli è chi è riuscito a autocontrollarsi e ha seguendo delle precise regole. Allora fa carriera e raggiunge vertici prestigiosi. Gli uomini e le donne di cui ogni tanto si parla perché hanno raggiunto posizioni apicali nelle varie professioni e nello sport sono soltanto costoro, quelli che hanno portato prestigio a se stessi e al loro Paese.
Ci si forma inizialmente in famiglia, ma padri e madri che oggi hanno 40-50 anni sono nati negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, cioè nello stravolgimento operato dal famoso e famigerato ”Sessantotto”, da cui appunto è scaturito tutto, in specie il rifiuto di regole e disciplina. Una situazione che si morde la coda, una situazione senza speranza, andremo di male in peggio? Si spera di no. Dai “ribelli senza causa” si è arrivati ai ”ribelli contro le regole”, dai ribelli per principio ai ribelli contro qualsiasi norma. Ma poi, messi magari di fronte ad un evento imprevisto e terribile come potrebbe essere una guerra, qualcuno capirà che non si può più andare avanti così e rinsavirà, anche se solo costretto dalla cruda realtà dei fatti…
Le guerre e le epidemie non hanno mai reso l’umanità migliore.
Dopo ogni grande guerra la gioventù (Dean) è sempre più bruciata, perchè si è abituata al furto, allo stupro, alla violenza.
La guerra dà la sensazione dell’impunità. Senza WWI non avremmo avuto in Italia Biennnio rosso, violenze dal 1919 al 1924, la dittatura…
Senza autorità, ordine (e repressione moderata) non c’è prospettiva di futuro che non sia l’autodistruzione…