Patria e Lavoro: per ricordare Giuseppe Mazzini, a centocinquant’anni dalla sua morte (10 marzo 1872), occorre andare oltre sia la pura e semplice celebrazione patriottica, sia il mero richiamo social riformista. In Mazzini Nazione e Socialità vanno declinate insieme, quali facce di un’identità complessa.
Su “La Jeune Suisse”, nel 1835, Mazzini scriveva: “La questione già meramente politica, s’è fatta sociale”. Non è sufficiente – egli nota – lavorare per l’unità nazionale (vista non solo come unione materiale di uomini aventi in comune la lingua e le tradizioni, ma anche come “missione” provvidenziale) perché è anche nella (grazie alla) coscienza “associativa” che il superamento del principio individuale si concreta nel nuovo vincolo sociale.
Di grande rilevanza appare dunque il contributo mazziniano ad una teoria della coscienza sociale che, rifiutando le volgarizzazioni di stampo marxista (tese a strumentalizzare “gli uomini del lavoro” con “concetti d’odio e di vendetta, di sostituzione di una classe ad un’altra, di disegni relativi d’ogni progressiva convivenza civile”), viene fondandosi su una nozione etico-organica della società (“lavoreria”), nella quale essenziale è il diritto-dovere dell’associazione: “il diritto dell’associazione è sacro come la religione che è l’associazione delle anime”.
Circa cinquant’anni dopo, il sindacalismo rivoluzionario e nazionale individuerà nell’associazionismo di categoria la nuova forma ed il nuovo istituto educativo degli uomini”, non “esercizio metodico e bottegaio di egoismo” (Sergio Panunzio); il grande storico Gioacchino Volpe scriverà che “Mazzini puntava sopra un’elevazione che fosse anche, pregiudizialmente, spirituale delle masse operaie; respingeva la concezione materialistica della storia …”; contemporaneamente, nel 1934, Giovanni Gentile evidenzia la sua “diffidenza verso il liberalismo meccanico della classica economia astratta: e quindi il principio della riorganizzazione delle forze sociali in un corpo che l’atomismo delle leggi economiche assoggetti alla concreta forma dello Stato etico, come dire alla stessa coscienza dell’uomo”.
Contro ogni visione utilitaristica, ieri come oggi ispiratrice di tante scelte economiche (secondo l’orientamento di Jeremy Bentham, per il quale tutto ciò che aumenta la somma totale del benessere individuale è utile) in Mazzini è la legge morale a “produrre” l’utile, secondo l’istinto del dovere e della giustizia che – egli scrive – “può costringere un popolo a sacrificare un’intera generazione”.
Il Mazzini “sociale” – è questo il valore attuale del suo “messaggio” – si presenta sempre più, anche a noi inquieti cittadini del Terzo Millennio, non solo come uno degli artefici dell’unità nazionale, come il padre di un repubblicanesimo istituzionalmente realizzato, quanto piuttosto come l’inascoltato profeta di un nuovo ordine sociale e politico, capace di raccogliere “sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzione di classi, senza predominio tirannico di uno degli elementi della produzione sull’altro, tutti figli della stessa madre la Patria”.
Come nota Francesco Carlesi, in premessa del suo recente “Giuseppe Mazzini, un italiano. L’apostolo della Patria e del Lavoro” (Eclettica Edizioni) : “La sua visione socio-economica sembra quasi disegnare una terza via fatta di partecipazione del lavoro che ispirerà non pochi pensatori nel corso della storia”.
Alla base c’è un’idea di conciliazione e partecipazione, bene sintetizzata in uno dei suoi ultimi scritti (“La Questione Sociale” del 1871), un testo mai adeguatamente ricordato che Carlesi riproduce integralmente, nel quale Mazzini descrive i limiti tanto dei rivoluzionari e degli agitatori animati dal mito della lotta di classe quanto dei possidenti, invocando uno sforzo interclassista in cui i borghesi, protagonisti della Rivoluzione francese, avrebbero dovuto giocare un ruolo importante nell’aprire la strada dei diritti anche agli operai e al cosiddetto “Quarto Stato”.
E’ un Mazzini scomodo questo, un Mazzini poco ricordato e poco studiato, un Mazzini che si preferirebbe archiviare dietro l’etichetta del “riformista” e che invece, a ben vedere, conserva intatta la sua carica rivoluzionaria ed identitaria, quale può ancora essere quella di chi rifiuta gli angusti ambiti di un liberal-capitalismo a base utilitaristica, pur senza avere nulla a che spartire con gli epigoni del nostalgismo marxista.
In questa prospettiva, fuori da ogni retorica, Mazzini appartiene a chi continua ad avere a cuore reali aspettative etiche di giustizia e di rinnovamento: problemi aperti, ieri come oggi, sulla via di un risorgimento, in grado di affrontare unitariamente questione nazionale, problemi sociali e rifondazione dello Stato. Malgrado il tempo trascorso, segnati dai centocinquant’anni dell’anniversario mazziniano, da qui bisogna partire per dare il giusto riconoscimento ad uno dei Padri dell’Unità e per declinarne nuovamente e correttamente il messaggio, nel segno dell’attualità.
Mazzini Sbadiglio?