Non da oggi il Populismo rappresenta un nemico da abbattere. Per quanto l’ufficialità metta all’indice il populista, reo di agitare in modo demagogico temi di forte impatto cercando di attirare l’attenzione ed il consenso del popolo, se consultiamo l’enciclopedia constatiamo che, trattando del Populismo, ci si riferisce a «tendenze o movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti […] riconducibili a una rappresentazione idealizzata del ‘popolo’ e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite. Tra questi tratti comuni hanno spesso assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa, privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader carismatici a partiti ed esponenti del ceto politico tradizionale» .
Attenta ai grandi temi storici, la Oaks editrice presenta una «Storia populista degli U.S.A. Da Jefferson a Bryan», saggio dello storico americano Avery Craven (1885-1980) pubblicato nel 1941 con il titolo «Democracy in American Life». Nel lanciare una frecciata ai suoi connazionali, rei di non essere «mai stati in grado di dare una definizione esatta di democrazia», Craven stigmatizza l’«individualismo spinto» originatore di una dannosa «aristocrazia della ricchezza». Fustiga pertanto «l’individuo libero» che, per «fini personali», accumulando ricchezze, realizza «programmi materiali».
Contro «ricchezza e potere», contro la depredazione delle «pubbliche ricchezze», in un contesto alquanto vasto e variegato quali sono gli USA, Craven ci fa conoscere taluni personaggi che potrebbero essere definiti populisti e, quindi, antidoto ai mali denunciati. Cominciamo da Thomas Jefferson (1743-1826), vice presidente USA dal 1797 al 1801, anno in cui diviene terzo Capo di Stato, carica che eserciterà per due mandati fino al 1809. Democratico e repubblicano, nazionalista e liberale, il verbo di Jefferson coniuga rispetto delle leggi e della Costituzione, ma anche ribellione «contro l’abuso». Fautore della libertà basata su pace ed ordine, contrario ad ogni interferenza del Governo nella vita dei cittadini, Jefferson è convinto che l’eliminazione delle disuguaglianze comporterebbe una maggiore crescita democratica degli USA. Anche se parte dei suoi programmi non è riuscito a realizzarli una volta divenuto Capo dello Stato – abolizione dello schiavitù, migliori condizioni di vita per i contadini, riduzione delle tasse – ancora oggi Jefferson è un personaggio che fa discutere gli storici riscuotendo simpatie ed antipatie a sinistra e a destra.
Ora Soffermiamoci su William Jennings Bryan (1860-1925), figura esplosiva del Populismo americano. Per tre volte candidato democratico – ma senza successo – alla presidenza USA fra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento, Bryan, tenace assertore dell’isolazionismo americano in politica estera – cambierà idea con l’entrata in guerra degli USA nella Prima Guerra Mondiale – è il prototipo del populista. Attento alle tematiche femminili, costituzionali, sociali e del lavoro, favorevole al proibizionismo, si oppone allo strapotere delle oligarchie.
Nel luglio 1896, alla convention democratica di Chicago per le elezioni presidenziali del successivo mese di novembre, Bryan scompagina il Partito Democratico portandolo su posizioni populiste guadagnandosi, a soli 36 anni, la candidatura alla Casa Bianca. Nel corso della campagna presidenziale Bryan percorre poco più di 29.000 chilometri, tenendo discorsi esplosivi. Una considerevole parte della popolazione è contagiata dal suo programma economico detto del “denaro facile”, che prevede il conio illimitato di argento. Si tratta di un gigantesco piano di sovranità monetaria a favore di chi vive gli squallori di una vita quotidiana densa di privazioni, a sostegno di un’economia depressa e beneficio di un’agricoltura in crisi. Sostenuto dal Partito Democratico dal Partito Populista e del Movimento Argento Nazionale, Bryan viene sconfitto con uno scarto di 600 mila voti dal candidato repubblicano William McKinley (1843-1901, che, forte di una macchina elettorale ben rodata, diviene il XXV Presidente degli Stati Uniti.
Fatti i dovuti raffronti in termini di epoche e dinamiche socio-economiche, non sono dissimili dai progetti di Bryan taluni programmi avanzati, negli ultimi anni, da vari movimenti populisti, quali lo stampare moneta a sostegno delle classi deboli e della economia in difficoltà. Da non dimenticare la proposta avanzata nel 2019 dalla Lega – al Governo con il Movimento 5 Stelle – favorevole a lanciare i Minibot, titoli circolanti che avrebbero permesso allo Stato di pagare immediatamente i tanti debiti dando una boccata d’ossigeno ai creditori in affanno. La proposta venne bocciata dall’allora Governatore della BCE, Mario Draghi.
È innegabile che il Populismo abbia lasciato una traccia profonda nella società americana. Spiro Ted Agnew (1918–1996), scelto dal Presidente Nixon (1913–1994) come suo vice nei due mandati presidenziali in quanto «mistico, patriota vecchio stile, maestro stratega sulle questioni urbane», dal 1969 al 1973, svolge quel “lavoro sporco” che il suo capo, per ovvie ragioni, non può fare. L’ex Governatore del Maryland oltre a parlare all’America profonda, con linguaggio sferzante, si scaglia contro i nemici di Nixon definendo i giornalisti «piccola e chiusa confraternita di uomini privilegiati eletti da nessuno», i detrattori «nababbi chiacchieroni del negativismo».
Veniamo al populista repubblicano Pat Buchanan (1938).Consulente dei Presidenti Nixon, Ford e Reagan, anticomunista intransigente – forse uno dei pochi nel Partito Repubblicano – ha tentato due volte la scalata alla Casa Bianca, ma è stato sconfitto alle nominations del 1992 e 1996, rispettivamente da George H.W. Bush e dal senatore Bob Dole. Fautore di un’America isolazionista non invischiata nelle beghe mondiali, allergico dell’«insipido establishment di Washington», avversario di quel mondo liberal-progressista dedito ad all’edonismo più sfrenato, fin dai primi anni Duemila nel libro «La morte dell’Occidente: come le popolazioni morenti e le invasioni di immigrati minacciano il nostro paese e la nostra civiltà», Buchanan denuncia, tra l’altro, il sensibile calo delle nascite unito ad un diffuso sentire e credo anticristiano.
Il resto è storia dei nostri giorni con Donald Trump che, uno contro tutti, nonostante non sieda più alla Casa Bianca, continua a beneficiare di un numero esorbitante di consensi populisti.
Un’ultima annotazione. Nella introduzione, Luca Gallesi sottolinea che il «fronte populista» americano non ha mai ceduto «alla tentazione della lotta di classe propugnata in Europa dal marxismo». È un assioma valido ancora oggi visto che le Sinistre, unitamente alle Destre liberiste avversano il Populismo e, quindi, quei movimenti che pur non professandosi tali, agiscono populisticamente.
*”Storia populista degli U.S.A. Da Jefferson a Bryan”, Avery Craven- Oaks (oakseditrice.it)