“Il nulla perseguita l’essere”- Sartre
La pellicola “America Latina” di Fabio e Damiano d’Innocenzo, presentata alla 78ma edizione del Festival del Cinema di Venezia, e al cinema dal 13 gennaio, è un’opera potente e lunatica. E’ il canto di un naufrago disperso nel notturno mare.
La trama
Nelle lande desolate attorno Latina, vive e lavora il Dottor Massimo Sisti, rispettato dentista a capo di uno studio avviato. Non ha una vita sociale particolarmente spiccata, ha un solo amico con cui parla ed esce ad ubriacarsi. Nella sua fantastica casa è un padre rispettato ed amato, che conduce una vita tranquilla e di serena convivenza con la moglie e le due figlie. Ma quando un giorno, per un guasto a una lampadina, scende nella cantina della sua casa, trova una ragazzina legata e segregata, tutto si sconvolge, il senso di colpa lo attanaglia e perde il controllo di sé e la sua pace interiore.
Nel labirinto umano
Questo è solo lo strato apparente del film, perché il merito di quest’opera risiede nella discesa graduale dentro la mente di questa persona. Si potrebbe dunque pensare che Massimo sia il frutto di una società che l’ha costretto ad opprimere le sue energie psichiche, ma la verità è che il film non scandaglia affatto nessuna di queste possibilità: non vi è indagine psicologica sul personaggio né vengono rappresentati nessi causali che possano aver creato il mostro che egli scopre di essere.
Siamo gettati in media res nei tormenti e nei labirinti dell’uomo, e più che un’indagine da thriller è un trattato filosofico, costruito attraverso piani, immagini, suoni e movimenti di macchina che cercano di costruire la visualizzazione della fisica quantica della mente umana. Siamo introdotti nella pellicola proprio come dentro l’atomo di una mente, in cui il vuoto prevale e ciò che vediamo sono i legami che collegano il dentista al mondo.
La fotografia e “la cantina”
Su questa linea, la sensazionale fotografia di Paolo Carnera, ormai eccellenza di livello mondiale della fotografia cinematografica, dirige i movimenti di macchina fluidi, restituisce il senso di vuoto che contrasta però con la potenza delle immagini, dei primissimi piani, dei raccordi di campo creati attraverso gli sguardi, della smaltata realtà che si vive al piano superiore della casa. Perché nel piano inferiore, -della casa, ma anche di questa struttura metafisica chiamata mente- regna il caos, il male di una giovane vita braccata e incatenata ad un palo. Ma la cantina è anche l’antro ove la coscienza emerge e trova consapevolezza di sé attraverso la rivelazione di un elemento esterno: la ragazza, la vittima stessa, ri-conosciuta come tale, è il motore della crisi interiore del personaggio, che si accorge dei suoi problemi di amnesia, e di un possibile seme di violenza germogliato dentro di sé.
Questa realtà che trova luogo nella parte inferiore della casa, si verrà poi a scoprire che è l’unica realtà che esista, mentre la famiglia è frutto della sua mente. Ma questo ci viene rivelato solo nel finale del film. Per il resto dell’opera noi viviamo questa sua realtà come vera, ci addentriamo nel mondo mentale che il protagonista si è creato: i dialoghi con le figlie, il pianoforte e le torte di mele, le risate, i momenti di intimità. Questi legami che il protagonista ha creato con la sua famiglia immaginaria, sono anche il modo attraverso cui egli definisce e giudica sé stesso: un buon padre di famiglia, un marito sincero e dolce. Infatti, l’individuo, afferma Sartre, non è nulla senza il riconoscimento di un altro essere. Il dualismo psichico è reso in maniera fenomenale dalla fotografia di Carnera e della ottima scenografia di Roberto de Angelis, entrambi geniali nello studio delle luci e degli spazi, capaci di rendere il cangiante stato emotivo di Massimo Sisti.
Il punto di non ritorno
Quando alla fine porterà la sua famiglia dentro lo scantinato e mostrerà loro la vittima, quello sarà il punto di non ritorno: trovandosi riconosciuto davanti al delitto dalla famiglia, egli si sente ri-conosciuto nella sua esistenza di carnefice, e cede. Quando nella parte finale lui chiama la polizia, ammette la sua condotta per non essere più definito da essa, perché il suo Essere possa uscire da questa forma e liberarsi.
È la fine della sua libertà di uomo, ma forse anche redenzione e guarigione per la sua mente.
I Fratelli d’Innocenzo firmano un thriller che è un elogio dell’angoscia, la quale, per Sartre è l’ansia che deriva dall’imprevedibilità delle nostre azioni, di ciò che saremo e faremo nel futuro. L’angoscia come imprevedibilità dunque sottolineerebbe la possibilità di una scelta nella vita.
Si tratta allora di libertà o determinismo? È stata una scelta consapevole o è stata determinata dal nesso causa-effetto all’interno del suo reame psichico? È difficile rispondere in poche righe.
Focus sulla paura
Su questa linea, il film può anche essere un’analisi della paura quale ci viene rappresentata attraverso il protagonista. Infatti se c’è ignoranza dei veri motivi delle nostre azioni, se ci si crede comandati da atti inconsci, allora non è più angoscia, ma paura rispetto a un accadimento che si considera come proveniente da qualcosa di diverso da sè. In questa ottica, però la libertà di scelta sarebbe minore e prevarrebbe una linea determinista. ll film lascia lo spettatore come un pugile su un ring vuoto, consapevole che a volte bisogna combattere, e duramente, con sé stessi. Dal punto di vista recitativo resterà comunque memorabile questo Elio Germano che performa uno sbalorditivo Katà e calcia le ombre della sua stessa mente.
*America Latina è un film dei Fratelli d’Innocenzo, con Elio Germano, Astrid Casali – Fotografia di Paolo Carnera,Scenografia di Roberto de Angelis