Viviamo di anniversari. Archiviato, con il 2021, l’anno dantesco, ecco arrivare – tra i tanti anniversari che il 2022 viene a proporci – il centocinquantesimo (10 marzo 1872) dalla scomparsa di Giuseppe Mazzini. Fuori di retorica, per uno dei padri della Patria e del repubblicanesimo, Mazzini non è oggettivamente una figura facile. Non a caso è stato letto, interpretato e “vissuto” in termini eterogenei sia durante il periodo monarchico che dal fascismo, sia nell’Italia della Guerra Civile che in quella della Prima Repubblica. Difficile districarsi nella grande messe di citazioni e di richiami alla primogenitura. Difficile individuarne l’erede perfetto, che forse non esiste perché Mazzini appartiene alla Storia italiana nella sua interezza e, solo in tale logica, va interpretato, collocato e ricordato sull’onda dell’anniversario, senza dimenticarne però le alterne fortune.
Nel dopoguerra il Partito Repubblicano Italiano è stato molto tiepido nel rivendicare l’eredità storica del mazzinianesimo, delegandone il culto all’Associazione Mazziniana. A sinistra l’imbarazzo non poteva che essere grande, laddove Mazzini era stato il primo a denunciare il comunismo come un sistema tirannico, in uno scritto del 1847 (“Pensieri sulla democrazia in Europa”). Da parte sua Karl Marx era arrivato a cestinare le “melensaggini” socialnazionaliste dei mazziniani, ben lontane dalle sue impostazioni classiste. In piena continuità con le bocciature di Marx, Palmiro Togliatti, segretario del Pci, nei primi Anni Trenta , scriveva che, se fosse stato vivo, Mazzini avrebbe “plaudito alla dottrina corporativa, né avrebbe ripudiato i discorsi di Mussolini sulla funzione dell’Italia nel mondo”, salvo poi , nel 1946, tentare di arruolarlo parlando di lui come “del nostro grande riformatore sociale”.
L’attenzione a destra
Sta di fatto che nell’Italia repubblicana il nome del patriota genovese non ha mai avuto grandi onori, a parte alcuni circoli culturali, trovando – non sembri un paradosso – maggiore attenzione “a destra”, da parte delle organizzazioni giovanili di area missina. Lo hanno evidenziato, nel recente I ragazzi del ciclostile. La Giovane Italia, un movimento studentesco contro il sistema, Adalberto Baldoni e Alessandro Amorese, ricordando come a Genova, negli Anni Cinquanta, “la tomba di Giuseppe Mazzini è frequente meta del pellegrinaggio da parte di delegazioni di dirigenti e militanti della Giovane Italia. Non avrebbe potuto essere altrimenti, non fosse altro per rendere omaggio al fondatore dell’Associazione politica Giovine Italia sepolto nella capitale ligure, luogo natio del patriota risorgimentale”.
L’elogio vergato da Berto Ricci
Al di là delle appartenenze strettamente politiche, pur significative, in un’Italia dalla memoria corta, il prossimo anniversario, dopo decenni di silenzi, può essere un’occasione per riconoscere il valore dell’esistenzialismo etico di Mazzini, del suo “bruciarsi” ideale, che ne evidenziano l’inusualità, senza perciò fare venire meno il valore anticipatore delle sue analisi di fondo: padre dell’unità nazionale, certamente, profeta della repubblica, ma anche espressione di quella “ideologia italiana” entro la quale rappresenta un tentativo di inveramento spiritualistico del socialismo in chiave nazionale, per una progettualità al tempo stesso nazional popolare, religiosa, interclassista. Nel messaggio mazziniano c’è, in nuce, Alfredo Oriani e la stagione interventista, c’è il sindacalismo nazionale e Sergio Panunzio, che vede nell’organizzazione sociale una nuova forma ed un nuovo istituto educatore degli uomini, e c’è anche una buona parte del fascismo e non solo quello etichettato “di sinistra”. C’è il fascismo delle origini, repubblicano e sansepolcrista, e quello della Repubblica Sociale, ma c’è anche il “fascismo Regime”, che, nel giugno 1927, con un’apposita legge, acquista, a Genova, “in via di espropriazione per causa di pubblica utilità”, l’intera Casa Mazzini, destinandola poi ad “uso Istituto” (con il museo, l’archivio e la biblioteca del Risorgimento tuttora attivi). Nel giugno 1934, Giovanni Gentile, in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto Mazziniano, lo assimilava al fascismo, per la sua concezione spiritualistica, per la sua avversione all’individualismo, per la sua diffidenza verso il meccanicismo liberista. Berto Ricci, nel settembre 1931 (su “L’Universale”) ne aveva esaltato l’anima popolare: “Senza Giuseppe Mazzini l’unità sarebbe rimasta una fantasia di cervelli ambiziosi, un sognatore di filosofi contro la storia. Mazzini prima di tutti, più fortemente di tutti, volle che all’impresa avesse parte il popolo, pena il fallimento o la mala riuscita”.
Una esperienza politica trasversale
Nel travaglio dell’epoca e del personaggio, Mazzini consegna all’Italia del Terzo Millennio idee ed aspettative troppo presto accantonate e dunque da ripensare (a partire dal connubio tra Nazione e socialità, tra diritti e doveri, moralità e Politica, capitale e lavoro, fratellanza tra i “buoni di tutte le classi”). In occasione del centocinquantesimo anniversario della sua scomparsa non si tratta allora di assimilarlo ad una parte, quanto di “ritrovarlo” organicamente nelle alterne vicende della nostra vita postunitaria. Per cogliere nella sua figura il senso di un’esperienza che seppe permeare trasversalmente uomini ed epoche diverse, unite dall’unica aspirazione di bene rappresentare gli interessi nazionali, tema tuttora di grande attualità.
Antipatico, noioso, retorico pieno di maiuscole e povero di senso politico. Un sognatore ubriaco di supposte virtù. Ma a chi può piacere oggi Giuseppe Mazzini?