Un nuovo villain sembra affacciarsi sulla scena internazionale. Questa volta però, non si tratta del solito bieco dittatore da “asse del Male” tanto caro alla retorica occidentalista, ma di un democraticissimo Primo Ministro: Shinzo Abe, premier giapponese e leader del Partito Liberaldemocratico. Il leader del paese del Sol Levante questa volta pare averla fatta grossa: il 15 agosto 2013, nel corso delle celebrazioni per l’anniversario dell’armistizio che decretò la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha rotto la tradizione che voleva che il Primo Ministro (ancora dopo 68 anni…) si scusasse pubblicamente coi paesi invasi dal Giappone nel corso di quel conflitto ormai sempre più lontano.
Parlando al cospetto dell’Imperatore Akihito e dell’Imperatrice Michiko, si è infatti limitato a dire: “Non dimenticherò mai il fatto che la pace e la prosperità delle quali godiamo attualmente nascano dal sacrificio delle vostre vite. Noi faremo del nostro meglio per dare il nostro contributo alla pace nel mondo”. Fine. L’assenza della richiesta di scuse non è passata inosservata alle diplomazie di Cina e Corea del Sud, con cui il governo presieduto da Abe non ha mai avuto rapporti idilliaci, le quali non hanno esitato a rimarcare con irritazione la “dimenticanza”. L’irritazione che è poi stata aumentata dalla scelta del Primo Ministro di inviare una propria offerta votiva al santuario shintoista di Yasakuni a Tokyo, che ricorda i caduti giapponesi nelle guerre affrontate dal paese nel corso della sua storia, ivi compresi 14 caduti che le Nazioni ex nemiche del Giappone considerano criminali di guerra. Al santuario si sono inoltre recati di persona, autorizzati dal premier, due membri del gabinetto.
E’ solo l’ultimo episodio indicatore della svolta in senso “nazionalista” (come dicono i detrattori) del governo Abe. Il “sogno proibito” accarezzato dall’esecutivo è nientemeno che la revisione della Costituzione “pacifista” imposta al Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale, in particolare di quell’articolo 9 che impedisce al Giappone di dotarsi (almeno ufficialmente) di forze armate. Per intenderci, si tratta di quella norma contro cui insorse Mishima, la cui protesta culminò con il seppuku rituale. La proposta era stata ribadita dal vicepremier Taro Aso, suscitando, il 14 agosto la reazione burbanzosa del Financial Times inglese: secondo il commentatore Gideon Rachman, quelle parole costituirebbero una minaccia alla pace ed alla sicurezza dell’Asia. Neanche si parlasse di Kim Jong Un…
Le mosse di Abe e del suo gabinetto erano state tenute d’occhio da tutta la stampa anglosassone nei giorni precedenti alle celebrazioni del 15 agosto: le parole e le azioni (visita o non visita a Yasakuni, per intenderci) si annunciavano decisive per una distensione od un ulteriore raffreddamento nei rapporti sino-giapponesi, già tesi dall’11 settembre 2012, quando il Giappone ha definitivamente nazionalizzato le isole Diayou, una sorta di “Falkland-Malvinas” asiatiche contese da decenni fra Giappone, Cina Popolare e Taiwan. Il prossimo 11 settembre, data del primo anniversario dell’occupazione, la tensione sarà ancora più alta.
Dove porterà questa nuova ventata di orgoglio nipponico? Per ora è difficile prevedere, tanto più che già all’interno della maggioranza di governo si fanno sentire le proteste del Komei, partito il cui appoggio è decisivo per la sopravvivenza dell’esecutivo, emanazione della congregazione buddhista Soka Gakkai, assai critica nei confronti della svolta soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la Cina.