Più che il cambio di paradigma tanto evocato, pare quasi un’Apocalisse. L’America, opulenta cornucopia del pianeta Terra, tira la cinghia. E ora punta a riscoprire l’autarchia per ristabilire, se non l’abbondanza sua proverbiale, quanto meno un minimo di funzionalità nell’economia interna.
Ne ha parlato l’Atlantic, ripresa in Italia da La Stampa e la notizia – come tutte quelle che davvero sono interessanti – è finita su Dagospia. Secondo D’Agostino, s’è rotta la globalizzazione. In pratica accade che gli Usa debbano fare i conti con lo spettro della “everything shortage”, la mancanza di tutto. Con un piede fuori dal Covid, gli americani hanno voglia di spendere. Con tutti e due ancora dentro, e con una guerra commerciale furibonda in corso con Pechino, le catene di produzioni a basso costo dell’Asia non riescono a fronteggiare la domanda interna. Dunque alle “soccer mummies” che intendono imbiancare casa non rimane che aspettare tempi migliori. Oppure la riconversione industriale di intere aree del proprio Paese.
Quanto sta accadendo ha un impatto che, a livello simbolico, appare potenzialmente devastante. L’America fonda il suo epos sul mito della terra promessa. Che promette tutto a tutti, non fa distinzioni di sorta: basta lavorare, impegnarsi, essere buoni cittadini e garantirsi così la benevolenza di quel Dio calvinista – quello che è invocato sul dollaro in God we trust – che rende milionari i figli di cui si compiace.
Tavole imbandite, donne generose e campi rigogliosi. La California, prima che un laboratorio progressista, è l’Eden vagheggiato dalle masse di diseredati in “Furore“. Il consumismo, certo. E gli hamburger giganti al fast food e le bistecche di brontosauro nei cartoons, la zazzera bionda del muscoloso Hulk Hogan e la torta di mele, la tecnologia ultra moderna, Wall Street che ti fa ricco con niente, le Cadillac lunghissime e le Harley che fanno un baccano infernale, il ballo della scuola e la banda di trenta elementi in divisa che suona Stars and Stripes mentre balla un esercito di majorette sul campetto dell’ultimo sperduto villaggio dell’Arkansas. Persino le pin-up, anzi soprattutto loro: l’America è una sinfonia d’abbondanza. Se questa sparisce, è la fine del mondo.
E non è (solo) letteratura alla Steinbeck, né pura speculazione filosofica. È la realtà. Che diventa carne e sangue dell’America contemporanea. E dunque dell’Occidente che influenza informandolo di sé.
Solo così si può spiegare perché sempre più persone si preparano a passare al bosco. Non in senso jungheriano, ma nel significato di un ritorno della civiltà a livello (quasi) da preistoria. Così vivono i “preppies”, i burloni (sempre più numerosi) con la fissa della Fine del Mondo che fanno scorte di carta igienica, semi, acqua minerale e scatolette di carne. In attesa di un evento catastrofico che segni la fine della civiltà come la conosciamo. Perché se finisce la Terra Promessa, va da sé, finisce tutto. Il cinema, un intero filone recentissimo è “apocalittico”, ha insegnato ad attendere un fatto solo e subitaneo. Una bomba, un tornado, un’invasione di zombi famelici. Un trauma solo e veloce, quasi un’eutanasia. Invece, l’abbondanza se ne va giorno per giorno, un po’ alla volta. Consegnata, pezzo per pezzo, alle linee di produzione asiatiche mentre infuria sullo sfondo una crisi diplomatica tra Washington e Pechino tale che non se ne ricordavano di simili.
Si è rotta la globalizzazione, giusto. Ma prima si è rotta l’America.
In America fino a qualche decina di anni fa tutti lavoravano e pure sodo. Liberalismo vero, duro ma gratificante ed a tutti utile…Poi sono arrivati i miti liberal dello Stato assistenzialista, da RdC. E tutto va in vacca…ovviamente. Chi non lavora non mangia!