Il pallone crossato in area di rigore, sorvola decine di teste ma chi lo colpirà sarà una testa sola, quella di chi ha nel DNA il dono d’ intuire in anticipo la traiettoria e di sistemarsi precisamente sul punto in cui cade.
La testa, per la Roma degli anni ’80, era il più delle volte quella del bomber Roberto Pruzzo.
Certo, il ragazzo non ha i piedi d’oro, però la palla la mette dove serve; non sarà altissimo, ma di testa arriva prima di tutti, non partecipa più di tanto alla manovra, ma alla fine chi la butta dentro è lui.
Pruzzo non colpiva il pallone, Pruzzo spizzava, toccava, deviava la traiettoria quel tanto che bastava per destinare il pallone da un binario morto ad una direzione fatale che faceva sobbalzare gli ultras della curva sud e che stimolava un cantautore romano a scrivere una canzone di ringraziamento.
Però un uomo come lui, scontroso, ruvido per natura, solo, che accennava un sorriso soltanto quando la palla gonfiava la rete, sa che la ricetta depressiva è una sola: “segnare più che può”.
Infatti Pruzzo c’era quasi sempre e, per due anni consecutivi (1980-81 e 1981-82), è stato capocannoniere della serie A.
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Ma quando arriva l’inevitabile stagione delle scarpette al chiodo e il binomio gol-sorriso diventa impraticabile per limiti d’età, è comprensibile come un bomber come lui possa vivere una profonda solitudine: da qui le dichiarazioni che rilasciò nel dicembre scorso a Liberoquotidiano in cui confessò di aver pensato spesso al suicidio: “Per fortuna ci sono gli amici e la moglie e tutti “quelli che riescono a farmi tornare il sorriso allontanando l’uomo nero che ogni tanto mi viene a trovare, gli stessi che riescono a farmi pensare che forse in fondo è meglio aspettare un altro po’“.
Roberto Pruzzo adesso spegne sessanta candeline e l’augurio più grande è che riesca a spizzare la vita e buttarla dentro, proprio come faceva con il pallone.