Il 22 febbraio si avvicina e gli Oscar non sono mai stati così “bianchi”. Non accadeva dal 1998, la situazione verificatasi quest’anno, come sottolinea l’Huffington Post americano, perché nessun attore, attrice o regista di colore (e/o ispanico) ha ottenuto una candidatura. Lo scorso anno Lupita Nyong’o e 12 anni Schiavo trionfarono, evento che in questo 2015 non potrà ripetersi. Certo il dato fa riflettere, considerato che Selma, da poco recensito col 99% dei giudizi positivi su Rotten con una media sopra l’8 su 10, è il primo film in assoluto sulla vita di Martin Luther King. Questo film, oltre ad aver scatenato le polemiche per aver ottenuto solo due nomination, rischia però di stupire tutti. Infatti nonostante il povero bottino, Selma conserva comunque la nomination più importante di tutte: quella per il miglior film (l’altra è per la miglior canzone).
Il caso Selma
Può vincere davvero Selma nella edizione degli Oscar più “bianca” degli ultimi 20 anni? Il progetto co-prodotto da Oprah Winfrey – già coprotagonista di The Butler, Un maggiordomo alla Casa Bianca – e da Brad Pitt – che come produttore si è portato a casa la statuetta del miglior film per 12 anni schiavo – rischia di diventare, secondo Richard Corliss della rivista Time “il film dell’anno, del 1965 e forse del 2014.”
Già candidato a 4 Golden Globe, 5 Independent Spirit Award e vincitore di diversi riconoscimenti tra i vari ‘circoli critici’ d’America meno patinati (National Board of Review, New York Film Critics, Los Angeles Film Critics Association, Boston Online Film Critics e AFI Awards su tutti) Selma di Ava DuVernay – regista afroamericana clamorosamente esclusa dalla statuetta per la regia – è uscito in Italia il 12 febbraio e nei primi giorni di programmazione si è timidamente fatto largo nonostante le 50 sfumature di marketing. L’unico sito italiano che gli dà un voto inferiore alle 4 stelle su 5 è Coming Soon, riconoscendo tuttavia la difficoltà narrativa di condensare il dialogo politico più complesso del 900’ americano, in appena due ore di cinema. Il film manca infatti di quella enfasi patinata che caratterizza spesso i kolossal hollywoodiani, avvicinandosi più a un documentario, girato evitando certi schemi narrativi liquidi. E questo è sicuramente un bene, perché ne risulta rafforzata l’immagine veritiera di un leader incredibilmente umano, coraggioso ma comunque impaurito e preoccupato per la sua gente.
Merito anche dell’attore britannico David Oyelowo anche questo clamorosamente snobbato dall’Academy, composto quest’anno per il 94% di votanti bianchi. La sceneggiatura dai toni duri e distillati, è ad opera di Paul Webb, scrittore anche di quel Lincoln – film che sembra collegato nel vulnus a Selma – che due anni fa, nonostante le diverse nomination, portò comunque la sua unica statuetta per l’interpretazione di un immenso Daniel Dey Lewis. Il cammeo del premio Oscar Cuba Gooding Jr, poi, impreziosisce ulteriormente, attraverso il ruolo dell’avvocato di King, il liet motiv di Selma, dato l’impegno dell’attore in altri film straordinari sul razzismo, l’ultimo dei quali in programmazione su Sky Cinema, Gifted Hands – il dono.
Il film ripercorre i fatti della città di Selma e ne racconta l’impatto mediatico, che portò ad agosto del 1965 Lyndon Johnson a firmare il Voting Rights Act, che garantiva il diritto di voto contro ogni forma di discriminazione razziale, etnica, religiosa e di genere. La prima delle tre marce organizzate (7 marzo) è ricordata come ‘Bloody Sunday’ perché fu repressa dalla polizia con cariche, gas lacrimogeni e manganelli. Una violenza che – ben ripresa nel film – ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica e portò a Selma migliaia di altri attivisti anche bianchi, fra cui anche personaggi famosi come Leonard Bernstein, Joan Baez, Harry Belafonte, Nina Simone e lo stesso Bob Dylan. Il film quindi svela altri retroscena, come la pressione dell’Fbi nella vita privata di King, il ruolo avuto dal Presidente Lyndon B. Johnson, che succeduto al compianto Kennedy, cercò comunque di arginare la questione razziale, nonostante il pantano del Vietnam, con due grandi disegni di legge storici, grazie all’impegno pacifico e culturale dello stesso Martin Luther King. Lo stesso Wallace, governatore dell’Alabama ultra razzista, aveva già dato parecchi problemi all’amministrazione Kennedy, e a Birmingham, altra enclave segregazionista dell’Alabama, nel 1963, King fu addirittura arrestato dopo gli scontri in piazza. Fu in quella occasione, poco prima dell’intervento diretto di Robert Kennedy, all’epoca Ministro della giustizia, per liberarlo, che King scrisse una importante lettera dal carcere, in cui spiegava perché era impossibile temporeggiare ulteriormente per rispettare i tempi incerti della politica:
“Quando attraversi il Paese e sei costretto a dormire notte dopo notte negli angoli scomodi di un’automobile perché non c’è un motel che ti accolga, quando giorno dopo giorno vieni umiliato dai cartelli provocatori ‘per bianchi’ e ‘per gente di colore’, quando non hai più un nome perché ti chiamano nigger, non hai altro appellativo che boy, qualunque sia la tua età, e il tuo cognome è comunque ‘John’, quando a tua moglie e a tua madre non viene mai riconosciuto il titolo di riguardo Mrs., quando il fatto di esser nero ti tormenta di giorno e ti perseguita di notte e ti costringe a camminare sempre in punta di piedi allora bisogna comprendere perché a noi risulti tanto difficile aspettare.”