Di consueto un libro si compra per averne letto una recensione favorevole. A spingermi a leggere l’Almirante di Aldo Grandi (Sperling&Kupfer), prima organica biografia dello storico segretario del Msi, sono stato invece spinto da una stroncatura. O meglio dalla “punzecchiatura” che, in un trafiletto sulle pagine culturali del maggior quotidiano della penisola, gli è stato dedicato da un redattore che rimproverava all’autore un’eccessiva indulgenza nei confronti del biografato. Incuriosito dall’accusa e interessato dall’argomento, ho divorato le oltre quattrocento pagine di Grandi, giornalista e storico, che ventiquattrenne studente di Scienze Politiche, nel 1984, ebbe occasione di intervistare l’allora segretario del Msi. E non sono rimasto deluso da questo saggio che si fonda su un’esauriente documentazione, bibliografica e archivistica, su una conoscenza di prima mano della vastissima produzione soprattutto giornalistica di Almirante, e soprattutto sull’onesto intento di ripercorrerne l’itinerario politico, culturale, umano senza indulgere né alla demonizzazione preconcetta né al taglio agiografico di alcune precedenti pubblicazioni sul segretario del Msi.
I limiti nella documentazione
Ho definito “esauriente”, non “esaustiva”, la documentazione. Talune lacune sussistono, come, per esempio, la mancata citazione del volume di Giuseppe Parlato Fascisti senza Mussolini (Il Mulino). Quest’ultimo saggio, a destra forse più recensito che letto, costituisce un’analisi fondamentale non solo delle origini del Msi, ma anche dei motivi per cui un movimento che si richiamava scopertamente al fascismo del Rsi poté attecchire in Italia, nonostante il dettato costituzionale, nonché del sottile e non innocente gioco delle parti nel sottobosco poliziesco della capitale che condusse all’arresto di Pino Romualdi e alla sua conseguente estromissione dalla guida del movimento. Sarebbero state utili per la completezza dell’informazione una ricerca più approfondita sulla carriera militare di Almirante, dal corso Auc al richiamo alle armi dopo l’8 settembre, tramite la richiesta del suo stato di servizio da ufficiale presso il distretto di Roma, e qualche notizia in più sui suoi studi universitari e sulla sua tesi di laurea sulla fortuna di Dante nel Settecento, o meglio sulla sua sfortuna, perché non vi fu secolo come quello dei Lumi in cui la Divina Commedia fu sottovalutata, prima della riscoperta romantica.
Ma queste piccole lacune non tolgono nulla alla solidità dell’impianto e all’equilibrio della trattazione. Il biografo Grandi non s’innamora del biografato come la segretaria del capufficio, sottopone quanto narrato dallo stesso Almirante nella sua autobiografica Autobiografia di un fucilatore a un puntuale riscontro critico, non ne minimizza le responsabilità di redattore del “Tevere” e di segretario di redazione della “Difesa della Razza”, nulla tace delle accuse di collusione con l’estremismo nero che gli vennero mosse durante gli anni di piombo. Riguardo alle prime, Grandi avrebbe fatto forse bene a contestualizzare il comportamento di Almirante nel quadro generale di un’epoca in cui anche futuri presidenti della Corte Costituzionale o esponenti di spicco del Partito radicale presiedevano il Tribunale della Razza o partecipavano a convegni sul tema razza e diritto. Riguardo alle seconde, l’autore sembra dare troppo peso alla memorialistica di Stefano Delle Chiaie e alle oblique accuse mossegli, in piena scissione demonazionale, in merito alla strage di Peteano. Riguardo a uno degli eventi più controversi della sua carriera politica – il manifesto della Rsi che minacciava la fucilazione per i renitenti alla leva, di cui Almirante negò la paternità querelando i quotidiani che l’avevano pubblicato, – Grandi ripercorre con obiettività le tappe del lungo itinerario giudiziario che vide il segretario del Msi perdere la causa per diffamazione, ma la magistratura riconoscere che la sua sottoscrizione del bando era tutt’altro che provata. Almirante era all’epoca capo di gabinetto del ministero della Cultura popolare, non della Guerra o degli Interni. E lo era per altro di freschissima nomina, perché il suo predecessore Bernabei, futuro consigliere di Stato dell’Italia repubblicana, aveva appena lasciato l’incarico.
Almirante il timido
Nell’insieme, comunque, il giudizio etico-politico emerge con chiarezza e, insieme ad esso, un’analisi psicologica che colpisce per la sua lucidità. Il brillante giornalista, lo straordinario oratore, il tribuno affascinante, il parlamentare infaticabile, il politico coraggioso fino all’incoscienza, che girava privo di scorta anche negli anni di piombo, era un realtà un timido: un uomo riservato, schivo, reduce da un matrimonio infelice, che in una devozione quasi religiosa alla causa compensava una profonda solitudine. Le seconde nozze, con donna Assunta, ne mutarono alcuni comportamenti, gli fece ro abbandonare le giacche stazzonate e le camicie mal stirate indossate in precedenza non per cattivo gusto, ma per una sorta di pavoliniana sprezzatura antiborghese tipica del fascismo repubblicano. Ma non poterono mutarne l’indole più profonda. Anche quando, spinto dalla moglie, prese a frequentare i salotti, Almirante non fu mai uomo di salotto. Anche quando sembrò avvicinarsi al potere – dopo il successo elettorale del 1972, o dopo le avances di Craxi nel 1983, – non fu mai uomo di potere, come lo sarebbe potuto essere il suo predecessore Michelini, senza i fatti di Genova. La mistica della sconfitta, assimilata negli anni della Rsi, non l’abbandonò mai, insieme alla profetica intuizione che molti esponenti del suo partito, entrati nell’area di governo o di sottogoverno, non si sarebbero comportati poi tanto meglio di quanti prima di loro avevano banchettato all’ombra dell’arco costituzionale.
Fu questo il grande limite, e se vogliamo il grande merito, di Giorgio Almirante. Un uomo che fu veramente grande nella sconfitta e nel dolore, mentre nei momenti di maggior successo non sempre fu all’altezza della situazione. Nei primi anni Settanta, quando, dopo il trionfale voto in Sicilia, parve in grado di condizionare da destra la Dc, non riuscì – anche per un difetto storico-culturale – a comprendere che la storia non si ripete: riproporre all’insegna dello slogan “aiutateci a difendervi” la strategia che mezzo secolo prima aveva portato al potere Mussolini costituiva un suicidio politico. Il fiorentino discorso dell’Apollo, in cui nel giugno del 1972 malaccortamente minacciò lo scontro fisico contro le violenze della sinistra finì per costituire un alibi alle violenze perpetrate per oltre un decennio a spese dei giovani, e non solo dei giovani, di destra. Ma il dolore, la rabbia impotente, l’umiliazione provata dinanzi a tanti delitti impuniti, a tante vite recise, a tante sofferenze senza riscatto gli fecero espiare senz’altro questo e altri peccati. E fanno passare in secondo piano altri piccoli e grandi errori che contraddistinsero la sua segreteria, a partire, spiace dirlo col senno del poi, dalla scelta del successore.
Almirante morì, quasi contemporaneamente al suo eterno secondo Romualdi e al suo storico nemico Dino Grandi, nel maggio del 1988: paradossalmente (la morte si diverte a fare i suoi dispetti) in un giorno di sciopero dei giornali. Morì in un’Europa prossima alla fine della guerra fredda, in un’Italia che, grazie anche al processo di storicizzazione del fascismo avviato dalla storiografia di Renzo De Felice e al nuovo corso craxiano, pareva uscire finalmente dal dopoguerra. I suoi funerali, trasmessi in diretta televisiva, con tanto di storico abbraccio fra Nilde Jotti e donna Assunta, parvero le esequie di un’epoca, la fine del dopoguerra e l’inizio di un’età nuova in cui l’Italia potesse riappropriarsi della propria memoria. E se questa speranza è andata in parte delusa, sarebbe ingeneroso addebitarne la colpa a Giorgio Almirante.
* Almirante. Biografia di un fascista, di Aldo Grandi, pp. 468, euro 18,90