Quando il celebre illusionista Stanley Crawford alias Wiei Ling Soo viene incaricato di smascherare una giovane e affascinante sensitiva americana Sophie Baker, da razionalista convinto e scettico incallito, non può immaginare che ogni sua certezza vacillerà di fronte alle doti sensazionali della ragazza. Ma dopo un periodo trascorso a contatto con la medium, scopre che questa non è altro che una truffatrice. Però la vera magia ha oramai sortito il suo effetto, e l’amore tra i due è destinato a travolgere ogni rancore e disincanto.
Sin dai tempi di Stardust Memories (1980) , New York Stories (1989) e la Maledizione dello scorpione di giada (2001), Woody Allen ha mostrato interesse per la magia e per l’elemento soprannaturale. Ora con questa nuova pellicola, “Magic in the Moonlight” inscena il vibrante contrasto tra razionalità e fenomeni soprannaturali. Lo fa attraverso la storia d’amore tra un illusionista imbevuto di positivismo e una sedicente medium. L’ambientazione, suggestiva e dal gusto retrò, è quella della Costa Azzurra della fine degli anni venti. Luogo, temporale e filmico, ideale per un cineasta amante del passato come Allen che, con mano abile, mette in scena una commedia sentimentale dai contorni da giallo (ma senza delitto) in cui, fra l’altro, gioca collo spettatore in un modo un po’ sleale non fornendo veri indizi. Ma a questo virtuoso della macchina da presa e della sceneggiatura (Allen ha scritto e diretto il film) si può perdonare quasi tutto, anche la genialità. I personaggi sono un quadro fedele della sua cinematografia: icastici, raffinati, pieni di contraddizioni, affascinanti: alleniani. Stanley, altezzoso artista rigonfio di scetticismo, è impersonato magnificamente da Colin Firth. In contraltare, la misterica e intrigante Stephy che ha le sembianze semidivine di Eva Stone. Ottima, infine, la prova di Eileen Atkins nei panni di zia Vanessa una donna di grande personalità, ed emblema dell’equilibrio ideale tra ragione e sentimento. L’elemento freudiano, sempre caro al regista americano, prende forma col personaggio dello psicanalista amico di famiglia (Simon MacBurney), e della sorprendente zia.
Dal punto di vista squisitamente registico il film appare ottimamente curato. La fotografia come la scenografia, che rammentano dei quadri impressionisti, rasentano la perfezione e sono talmente ricercate da sembrar finte. Le pennellate di colore e le pregevoli inquadrature, ancorché sapienti e suggestive, appaiono un po’ affettate e conferiscono al tutto un tono baroccheggiante.
Il risultato? Woody Allen ha confezionato un film delizioso, curatissimo, garbato, irriverente e colorato di quell’ironia che è il suo vero marchio di fabbrica. Un lungometraggio che racconta con leggerezza ed efficacia il mondo rilucente ed effimero della ricca borghesia europea di quegli anni, il dibattito acceso tra positivisti e spiritualisti e il crescente successo che andavano guadagnandosi le teorie di Sigmund Freud. Difetti? Si, qualcuno, che però il grande Allen dissimula con l’abilità consumata con cui Wiei Ling Soo fa svanire il suo elefante.