Appartengono alla categoria degli “ulissidi” – secondo la definizione di Edmondo Berselli – allenatori curiosi del mondo prima ancora che delle partite, intelligenze “greche” che rimasticano Platone, Aristotele, Socrate e lo applicano agli uomini e al calcio. Sono altro dalla normale folla che si siede in panchina. Questo è evidente persino a chi non li sopporta e li vorrebbe sconfitti e in torto. Benitez e Zdenek Zeman, ogni volta che ci sono – in conferenza stampa o in panchina – assicurano spettacolo.
Spesso non vengono compresi, per alcuni sono da amare a prescindere, per altri rimangono dei pianeti sconosciuti e non identificati, persino quando attraggono per accumulo di stupore prodotto, e incontrovertibilità di idee e risultati. Sono fuori dal conformismo calcistico: Benitez ha portato a Napoli e in Italia una grammatica diversa dello sport; Zeman ha dato all’Italia una possibilità di uscita dal conformismo calcistico, conducendo battaglie solitarie che gli sono costate squadre e silenzi. Tanto che Benitez in conferenza stampa ha sentito il bisogno di dargli ragione. Sono uguali nel temperamento – che gli viene rimproverato –, nel modo “tranquillo” di andare incontro ai calci in faccia, di superare le ondate negative e le sconfitte delle proprie squadra. Sono degli integralisti di modulo e fuori dal campo praticano l’albagia, l’aristocratico rimedio suggerito da Totò rispetto alle situazioni difficili. Benitez ha vinto tanto nel calcio, Zeman ha avuto tanto dal calcio. Vanno oltre le passioni e le commozioni, gli odi e le vendette, a loro il calcio interessa come linguaggio per capire la vita e gli uomini, sono più dei ricercatori che hanno il piacere di passare le loro scoperte che dei veri e propri istruttori di gesti e moduli (funzione che viene dopo). Negli anni li abbiamo visti affrontare situazioni diverse ma sempre con lo stesso carattere, con la stessa calma, un sintomo di maturità, mentre intorno tutti cambiavano idee e riscrivevano storie e sentenze: dandosi nuove identità. Sono delle certezze, tra le poche che l’attuale campionato italiano si può permettere. Zeman ha trovato a Cagliari, squadra e città che furono di Manlio Scopigno, il giusto “contesto” per praticare la sua filosofia. Benitez ha fatto fare al Napoli – non senza difficoltà – un salto temporale e mentale che nessun allenatore italiano avrebbe potuto nemmeno immaginare. Hanno una sincronia filosofica più che calcistica, Benitez ha un leggero interesse in più a capitalizzare l’estetica in risultato positivo, incentrando sulla responsabilità il gioco; Zeman ha la libertà dei pirati al largo degli oceani, assalta, senza preoccuparsi delle perdite, procede a valanga, Scopigno avrebbe detto: “Quos Deus perdere vult, amentat prius”, quando uno vuol perdere Dio gli dà una mano, è tutta qui la sua grandezza, nello sprezzo. Per questo sarà spettacolo al San Paolo, nonostante le assenze, su tutte quella di Insigne che se è vero che Benitez lo ha fatto uomo, a Zeman si deve il calciatore. Hanno una sapienza arcana che li mette al riparo dalle abitudini pallonare italiane, che li separa dalla massa di tecnici che hanno la faccia intonata agli studi televisivi.
Sono fuori dal melodramma laccato che viene costruito e raccontato ogni fine settimana negli stadi lungo la penisola, per questo vagano nell’umore dei tifosi e dei giornalisti. Due allenatori dispari, che non devono alla fortuna la loro popolarità e riconoscimenti, ma ad una capacità individuale di pensare e praticare il calcio. Hanno una dinamica complessa che da loro arriva ai calciatori, sono fuori dai vincoli stagionali e legati solo alla bellezza assiomatica del loro gioco. Hanno un codice prescelto che non tradiscono nemmeno di fronte alle emergenze. Gli ultimi due tiri mancini rimasti, nell’immobilità del calcio italiano. [uscito su IL MATTINO]