“Tratteremo gli ultras violenti come i mafiosi”. C’è un unico modo per definire l’intemerata con cui il ministro Alfano ha presentato l’ennesimo decreto sicurezza sugli stadi: una gaffe. Ma non essendoci bucce di banana in giro su cui farlo scivolare – e nemmeno campagne mediatiche per favorire un candidato piuttosto che un altro – anche un’equiparazione stupida, che offende buon gusto e trasuda retorica, come quella tra mafiosi e ultras, può passare (quasi) inosservata.
L’Angelino nazionale ha illuminato l’opinione pubblica sul giro di vite che, almeno nelle intenzioni sbandierate, vorrebbe colpire i violenti usando un paragone – e, peggio ancora, mettendo nero su bianco in alcune misure del decreto – figlio di una tecnica già adoperata in passato: fare leva su un tragico episodio collegabile a una partita di calcio – in questo caso l’assurda e folle morte del tifoso napoletano Ciro Esposito – per reprimere il fenomeno ultras e relegarlo nell’ambito della sociologia criminale, evitando scientificamente di affrontare i veri mali del calcio italiano.
Nel dettaglio, il pacchetto di norme “anti-violenza” somiglia a un ennesimo inasprimento, con una buona dose di strabismo, delle leggi già vigenti in materia, con qualche novità da far accapponare la pelle alla cultura giuridica italiana, sacrificata sull’altare dell’insopportabile retorica di chi dice di voler “riportare i bambini allo stadio”. Si (ri)parte dall’ormai famigerato Daspo, il divieto di accesso alle manifestazioni sportive, che viene potenziato: per chi commette, anche all’estero, atti di violenza, minacce, intimidazioni o espone striscioni inneggiati alla violenza si va dal divieto di accesso fino ad 8 anni per i recidivi a quello di gruppo (con un minimo di 3 anni per i non meglio identificati “capi”). Resta compresa tutta la casistica assurda delle diffide: da chi introduce un tamburo a chi accende un fumogeno, a chi sfotte un rivale con uno striscione o ironizza su un calciatore avversario. Tutto in barba a sentenze e dibattiti che si sono interrogati, negli ultimi tempi, sulla legittimità di un provvedimento che rappresenta, di fatto, una limitazione della libertà personale che non viene stabilita da un giudice terzo ma dagli organi di polizia.
E mica finisce qui: il Daspo è esteso a tutti coloro che sono stati denunciati o condannati per delitti contro l’ordine pubblico – ad esempio devastazione e saccheggio – e per i “delitti di comune pericolo mediante violenza”, come attentato alla sicurezza dei trasporti o fabbricazione e detenzione di materiali esplodenti, ma anche per rapina, estorsione e spaccio di droga. Anche la flagranza differita, ossimoro giuridico che stravolge diritto e ragionevolezza, è rafforzata e prevista anche per quanti fanno cori o innalzano striscioni che istigano alla discriminazione razziale. Se fanno in tempo potrebbero “daspare” pure Tavecchio, il candidato con maggiori chance per diventare nuovo presidente Figc, scivolato sull’ormai famosa frase razzista e crocifisso con una campagna che ricorda certi scandalizzati gridolini anti-Cav, più che anti-Tav.
A tutto ciò si aggiungono altre due norme molto forti: il potere al ministro dell’Interno di impedire le trasferte, fino a due anni, alle tifoserie protagoniste di gravi episodi di violenza e la sorveglianza speciale di polizia per chi è stato più volte colpito dal Daspo o è spesso coinvolto negli scontri. Come i mafiosi, appunto. «È una scelta molto forte del governo – ha dichiarato Alfano – visto che lo stesso provvedimento si applica ai mafiosi. Lo Stato ha perso la pazienza contro chi vuole rovinare la domenica agli amanti del calcio», aggiungendo poi un’altra serie di ovvietà, stile «dobbiamo dare un calcio alla violenza» oppure «bisogna restituire il pallone agli italiani, a quella parte sana della tifoseria per riportare i bambini allo stadio». E la tessera del tifoso o il famigerato articolo 9? Scomparsi dal dibattito, per ora, continueranno a fare danni. La sensazione che si sia fatto di tutta l’erba un fascio è forte. Di questo passo altro che bambini: allo stadio non ci tornerà nessuno. Tutti in poltrona, a fare da comparse di uno show che sembra ormai richiedere l’inerzia di un consumatore, più che la passione di un tifoso.
Ma paragonare gli ultras ai mafiosi è operazione che indigna, al di là del giudizio, pur se molto negativo, che si può dare del merito delle misure decise dai piazzisti della rottamazione. Accendere un fumogeno, non è lo stesso campo e neppure lo stesso sport rispetto a mettere una bomba o ammazzare un magistrato. E tra fare una rapina, e lanciare un sasso contro un auto, c’è un abisso di mezzo. Non riconoscerlo, non può essere altro che stupidità o malafede. Tertium non datur. Un’offesa alla sensibilità dei milioni di italiani che conoscono cosa significhi vivere a stretto contatto con la criminalità organizzata, nei quartieri ghetto delle principali città del Sud, o in qualche ufficio dalla faccia apparentemente pulita del Nord. La retorica, e il moralismo, applicati contro gli ultras brutti, sporchi e cattivi forse potranno pagare – anche se i risultati di Ncd alle europee non sembrano confermarlo – in termini elettorali. Ma lasciano il campo a un improbabile celodurismo che sbaglia due volte: evitando risposte concrete se non la criminalizzazione repressiva di decine di migliaia di italiani per colpa di pochi, e offendendo la sensibilità di chi, nella battaglia alle mafie, ha perso molto, spesso anche la vita. Pur essendo siciliano, evidentemente il ministro dell’Interno se n’è dimenticato, scivolando sulla vergogna di una gaffe, più che sul conformismo di una buccia di banana.