Le polemiche sul presunto inchino della Madonna non si arrestano. La posta in gioco è alta: la liberazione del sud dal gioco mafioso. Su questo fronte la chiesa ufficiale – quella del Papa e dei vescovi – si sta giocando una partita decisiva e forse epocale. I moniti ci sono, mentre la scomunica è stata già pronunciata. I boss, intanto, si risentono, annunciando il tanto inedito “sciopero” della messa. Segnale, forse, che qualcosa si muove e che i nodi stiano venendo al pettine. Almeno tra le coscienze criminali. Il rischio però che gli episodi di questi giorni possano scadere in una facile indignazione un tanto al chilo è dietro l’angolo. Il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco fiuta il pericolo e lancia l’allarme: «Non è certo un’esercitazione etica a salvare la religione», ha scritto stamane nel riempitivo del Foglio.
L’autore dell’appena uscito Buttanissima Sicilia (Bompiani) rispolvera un aneddoto riguardante don Alfio Spampinato che vale quanto una ricetta della tradizione. Un prete sì, ma con il quale non scherzare troppo, soprattutto sulle cose di fede. Alto, voluminoso, “presente”. Prima di fare il prete, militava in Ordine Nuovo. Poi è arrivata la chiamata. Quella più importante di tutte. Alla “camicia nera” si è aggiunto il colletto bianco. Poco cambia, almeno nello stile. A lui sono affidate le anime di carcerati e paracadutisti. Ma non solo. Per anni è stato parroco a Librino, uno di quei quartieri ad alto rischio criminale di Catania. La zona simbolo dell’esclusione sociale. Spampinato diventa un punto di riferimento. La pastorale è parole chiare, polso duro e tanto pelo sullo stomaco. Rischia la faccia, il pizzo e qualcosa di più. I risultati non sono mancati. Qualcuno addirittura lo avrebbe voluto candidare a sindaco. Ma quella è un’altra storia.
Ecco dunque l’episodio rievocato da Buttafuoco. «Fate, e lo dico agli indignati, qualora ce ne fossero tra i sinceri credenti, come fece don Alfio Spampinato durante la processione di Sant’Agata a Catania. Il fercolo, come da consuetudine, stava per inchinarsi innanzi al balcone di un malacarne. I suoi fedelissimi avevano infatti predisposto l’omaggio al loro capo. Ogni processione, ogni rito, è degnazione di territorio».
«E don Alfio, allora, paracadutista della Folgore, abituato a somministrare benedizioni su ogni grugno, prese il più cattivo di quei sottopanza, lo acchiappò per il ciuffo, lo inginocchiò così da mostrare ad Agata quanto fosse salda la devozione anche presso i perduti e, tenendogli i ginocchi sul manto di asfalto e di cera squagliata, gli impartì la benedizione con una palata a mano aperta. E poi un’altra ancora. Non sia mai si venisse meno al precetto delle guance. La processione se ne partì e Agata, tra le braci e i petali, se ne salì, per via di San Giuliano. Se ne salì con regalità. E senza pubblicità».