La vittoria dell’Oscar de La grande bellezza di Paolo Sorrentino testimonia come l’Italia abbia sempre qualcosa da dire e da dare al mondo. Quindici anni dopo il nostro Paese si rimpossessa di un titolo che significa capacità di produrre immaginario, emozioni e narrazione in un momento in cui il Paese ha evidentemente bisogno di qualcosa con cui e per cui ritornare a sognare.
Paolo Sorrentino, da artigiano della parola e dell’immagine in movimento, ci ha restituito un affresco di un’Italia “da-a”, dalla generazione che ha goduto della ricostruzione del Dopoguerra alla generazione che oggi rischia di perdersi nel vacuo. L’indagine sociopolitica, se vogliamo, finisce qui. Ciò che più importa è che al centro della vicenda, come nella migliore tradizione umanistica italiana, ritroviamo sempre lui: la persona, Jep, artefice del proprio destino.
Per questo, al di là delle diatribe e delle miserie nostrane che si sono susseguite all’uscita del film (“Il film è di destra o di sinistra?”, “Ce l’ha con la società berlusconiana o con i salotti radical di sinistra?”), l’opera vincitrice dell’Oscar si è imposta al grande pubblico di ogni latitudine per la domanda delle domande: che cosa fa un uomo, oggi, in mezzo alla “grande bellezza”?
È questo il piano del film di Sorrentino e del suo protagonista che arriva a fondo: il senso di un uomo, di ogni uomo, rispetto a ciò che gli è stato donato. E l’Italia, e Roma, in tutto ciò diventa palcoscenico di tutta un’Europa in crisi: siamo vecchi o arrugginiti? Siamo fatti di radici o perfino le radici si mangiano? La soluzione, smarriti i “paradisi” delle utopie utilitaristiche, sembra dover ripartire “al termine della notte”.
Su Barbadillo in questi mesi abbiamo raccontato e testimoniato il valore (e i chiaroscuri) di quest’opera che, a nostro avviso, può e a questo punto deve diventare chiave di lettura per comprendere come l’unico modo per rimettere in moto il Paese sia avere il coraggio di investire in profondità sulla nostra vicenda, sulle nostre maestranze e sull’estro della nostra fantasia. Al resto ci penserà la “bellezza” che i padri ci hanno consegnato. Certo. Sta a tutti noi non trasformarla in un museo, ma nell’ingrediente segreto di una nazione intera. Quello che non si può clonare né delocalizzare.