Esistono strade banali, diritte e tranquille, senza sussulti, infamia e lode; poi ci sono invece le strade in salita, quelle in cui l’asfalto ti nasconde l’obiettivo da inseguire fino all’ultima goccia di sudore, fino all’ultima goccia di te. Marco Pantani da Cesenatico, per tutti il Pirata, scalava le seconde, nel ciclismo e nella vita.
Dieci anni fa, nella notte di San Valentino, un’overdose da cocaina in situazioni che ancora oggi risultano poco chiare lo portò via dai suoi innamorati e dagli amanti del ciclismo nella stanza D5 del residence le Rose di Rimini. Aveva iniziato giovanissimo a pedalare, il Pirata: all’età di undici anni, affascinato dalla scoperta che la bicicletta, fino ad allora vista come un giocattolo, potesse diventare un mezzo per competere nello sport, abbandonò l’idea di giocare a calcio e si iscrisse alla Gruppo Cicloturistico Fausto Coppi, associazione dilettantistica del suo paese.
Partì da lì il percorso lastricato di difficoltà e gravi infortuni che lo ha portato a diventare leggenda: Pantani è stato l’ultimo ciclista della storia a vincere Giro d’Italia e Tour de France nella stessa stagione agonistica. Correva l’anno 1998, punto più alto della sua carriera e forse, allo stesso tempo, della sua vita. Ritenuto da più di qualcuno il più grande scalatore della storia, il ciclista romagnolo ha vissuto per scelta o per caso ogni corsa come parabola della vita. Quando in gara la pendenza diventava proibitiva, Marco saliva in piedi sui pedali e mangiava l’asfalto, dopo aver gettato al bordo della strada il caschetto e la famosa bandana per cui gli avevano assegnato quel soprannome che tanto amava; si alleggeriva, lanciava uno sguardo di sfida agli avversari ed imponeva un ritmo tremendo che abbreviava la sua agonia (ipse dixit rispondendo a una domanda di Gianni Mura) e prolungava quella degli altri. Sempre pronto ad alzarsi in piedi, sempre pronto a tornare in piedi dopo infortuni che avrebbero abbattuto chiunque, ma non lui. Quando durante la Milano-Torino del 1995 un fuoristrada lo investì viaggiando in sede di gara in senso contrario causandogli la frattura di tibia e perone, nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo ritorno all’attività agonistica. Invece cinque mesi dopo era di nuovo in bicicletta, pronto a scalare in tre anni vette inimmaginabili, in fuga da tutti i colleghi, in fuga da tutto il resto.
E’ tuttavia scritto nel destino dei più grandi che dopo la salita, nello sport e nella vita, c’è la discesa. E nel ciclismo la discesa è sempre imprevedibile, non c’è calcolo che tenga. Quando scalando una montagna sali sui pedali sei lì con la tua astuzia ed i tuoi limiti, col tuo vigore e la stanchezza. Quando scollini, invece, il confine tra correre e precipitare, soprattutto se sei solo, è labile e farabutto. La mattina di quel 5 giugno del 1999, a Madonna di Campiglio, Pantani ha cominciato la sua discesa: escluso precauzionalmente da un Giro che stava dominando, a causa del tasso di ematocrito nel sangue di poco più alto del consentito. Paradossalmente veniva fatto fuori dal suo sport e dalla sua vita con la scusa di preservarne la salute e la carriera. Una vera ingiustizia, pienamente leggibile nei suoi occhi mentre lasciava la carovana rosa attorniato da giornalisti e carabinieri. Proprio lui, che aveva dato lustro ad un movimento fino ad allora in secondo piano, ad un ciclismo spesso bistrattato e ritenuto sport secondario e marginale: il Pirata, un pesce grosso in una rete colma di ipocrisia, se è vero come è vero che da quel giorno in poi gli albi d’oro dei grandi giri sono più pieni di nomi cancellati dai podi che di eroi. Vivere quell’ingiustizia tirò fuori tutta la debolezza che era in lui: la magnificenza che l’aveva contraddistinto in salita lasciò spazio nella sua parabola discendente ad un’indicibile depressione. Precipitando tra maldicenze e botte provenienti proprio dal mondo che l’aveva fino ad allora solo incensato, non trovò altri gregari se non spacciatori di polvere bianca e donne in vendita, cattive compagnie che lo resero non solo vittima di un sistema, ma soprattutto, ciò che è più importante, vittima di se stesso. Esistono strade banali e scialbe, che forse non vale nemmeno la pena percorrere; poi ci sono invece le strade in salita, quelle del Giro e del Tour. Strade sudate, ricoperte di scritte e colme di ricordi che ancora oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa, ricordano al mondo che Marco Pantani è stato forse il ciclista più grande e più amato della storia. Quel maledetto San Valentino ce l’ha portato via, strappandolo ai suoi affetti ed alla sua delusione. L’ha mandato a scalare l’Olimpo dei grandi: anche lassù, al traguardo, avrà chiuso gli occhi e allargato le braccia, esultando in maglia rosa al suo ingresso definitivo nella leggenda, quella che spetta agli eroi, a quelli che vanno via troppo presto: la leggenda del Pirata sempre in piedi sui pedali.