Eusebio da Silva Ferreira è riuscito a diventare una leggenda senza essere mai stato un’icona. Non aveva gli allori mondiali di Pelè, né il fascino maledetto di Best. Ciononostante la Pantera Nera ha segnato un’epoca legando al suo nome il destino di una squadra e di una nazione come pochissimi altri hanno saputo fare, prima e dopo di lui.
Era nato il 25 gennaio 1942 a Lourenço Marques, che oggi si chiama Maputo ed è la capitale del Mozambico. Allora il Mozambico era solo un’espressione geografica dentro alla parodia di impero coloniale che i portoghesi, un tempo dominatori dei mari, si ostinavano a tenere in piedi. In quel lembo dimenticato del continente africano arriva Ugo Amoretti, portiere juventino negli anni Trenta e poi allenatore e talent scout: Amoretti, racconterà il campione, propone il quindicenne Eusebio proprio al club torinese, ma la madre non accetta il trasferimento.
Sarà invece una squadra portoghese ad assicurarsi il futuro fuoriclasse alle soglie della maggiore età. É il Benfica dell’allenatore giramondo Béla Guttmann, che in quegli anni può già contare su un ottimo collettivo dove svettano quattro giocatori provenienti dalle colonie: il portiere Costa Pereira, i centrocampisti Santana e Aguas e l’attaccante Coluna. Sono loro a conquistare la prima Coppa dei Campioni battendo il Barcellona di Luis Suarez e degli ungheresi nel 1961.
La stella del giovanissimo mozambicano si consacra l’anno successivo davanti dell’imbattibile Real Madrid: finisce 5-3, con i merengues piegati da due gol di Eusebio in tre minuti, nonostante la tripletta di Ferenc Puskas. Dopo il trionfo, Guttmann sbatte la porta e lancia una funesta maledizione sul suo ex club: “Il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”. Da allora in avanti, in effetti, saranno solo amarezze in campo internazionale: Eusebio e compagni dovranno inchinarsi al Milan nel 1963, all’Inter nel 1965 e al Manchester United nel 1968. A tutt’oggi la maledizione di Guttmann resiste e le aquile di Lisbona condividono con la Juventus il poco invidiabile primato di finali perse nella massima competizione europea: ben cinque su sette disputate.
La Pantera Nera si consola comunque con una serie di incredibili successi: undici scudetti, due coppe nazionali, sette volte miglior marcatore portoghese e il trono di capocannoniere ai Mondiali inglesi del 1966, quando trascina i lusitani fino alla conquista del terzo posto. Nei quarti di finale di quel torneo Eusebio firma il suo capolavoro, un poker di gol (con assist) che ribalta lo svantaggio iniziale di tre reti e stende la terribile Corea del Nord, giustiziera dell’Italia di Fabbri.
Dopo quindici anni al Benfica, con 317 reti in 301 partite, chiuderà la carriera negli Stati Uniti confrontandosi direttamente con Pelé, insieme al quale per lungo tempo era stato protagonista di una di quelle irrisolvibili dicotomie che attraversano il calcio da sempre: meglio O Rei o la Pantera Nera?
Gli annali ci ricordano che Eusebio è stato il primo calciatore africano a vincere il Pallone d’Oro, nel 1965. Sarebbe bastato a farne un simbolo, se Eusebio non fosse stato Eusebio: un antidivo, umile e riservato, di cui non si ricordano né celebri dichiarazioni né polemiche. Così schivo da scegliere, una volta appese le scarpe al chiodo, di limitarsi ad un ruolo di accompagnatore nello staff del Portogallo, dove per tanti anni lo si è intravisto col suo mento aguzzo e il suo sorriso un po’ triste. Campione assoluto in un’epoca di campioni, ha rinunciato al protagonismo per evitare confronti a tutti quelli che sono venuti dopo di lui. Avrebbero schiacciato chiunque.