(Due anni fa, il 23 ottobre 2011, moriva durante il gran premio di Sepang in Malesia il campione di motociclismo Marco Simoncelli, per tutti SuperSic. Lo ricordiamo con un ritratto dello scrittore Marco Ciriello).
In pista non ha solo lasciato la vita, Marco Simoncelli, ma anche un vuoto, e una scia che, vagamente, l’Italia, avrà di nuovo. È morto come un Ettore, È morto come un Ettore, colpito al collo, in una curva – che sono le mura dei piloti: che tu stia attaccando o difendendo devi farci i conti –. Sotto il cielo della Malesia di Salgari, lo sguardo della morosa e di sua madre, oltre che in diretta tv. È la storia triste di un ragazzo normale, testa da re leone Madagascar, scomposto perché troppo alto, molto cowboy sulla moto, spavaldo in gara (Lorenzo gli aveva dato del pericolo pubblico), amava Kevin Schwantz (il più pazzo di tutti i piloti), ma lontano dalle moto era sperduto (guardatelo nei fuori onda). Scanzonato.
I motociclisti sono così, non si montano la testa come i calciatori, forse per via del casco, stanno con ragazze normali, stava con Kate Fretti, che è bella ma non è una velina, e lo costringeva a vedere gli horror che gli mettevano paura. Prima delle gare registrava messaggi su Youtube, come quelli della sua età fanno dalle loro stanze. Non erano messaggi alla nazione, ora che anche la Merkel lo fa, piuttosto comunicazioni sentimentali di servizio, è come scendere al bar dagli amici prima delle partite. Dici: sto bene, sto male, ci provo. Era un eroe a portata di mano, Simoncelli. Un acrobata tra rapidità e normalità. La Motogp è una guerra alla velocità, e Marco il suo Ettore. Caduto due volte, in pista e dalla barella, e la seconda sembra un seppellitemi in pista, dove rumori e infanzia non svaniscono. Se monti sai che cadrai, se corri sai che rischierai, ma se muori rimane comunque una ingiustizia. Per questo ci fanno i murales, poi verranno libri, film e canzoni: grammatica del ricordo, percorso obbligato per chi è un collettore di speranza, perché la storia dei nostri giorni passa per le piste, i campi di calcio e basket, sono loro i nuovi dei, domestici: gli sportivi. In assenza di ideologia, non resta che lo sport. Con lui, c’è Valentino Rossi, che più italiano non si può, uno che ha girato il mondo da provinciale, e come Marco non ha lasciato il suo universo fatto di apecar e giro d’amici.
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La colonna sonora è quella comune a diverse generazioni: Vasco Rossi, eterno adolescente, e il loro equivalente musicale è Jovanotti, stesso ritmo, stessa luce: da uscirci insieme. Perché anche lui ha conservato quello spicchio di stupore che hanno i bambini a vedere una moto passare veloce, a sentirla rombare, per questo l’accendono in chiesa al posto delle candele. È l’urlo, degli anni zero, della provincia, è anche il primo mezzo col quale un ragazzo sente sua la città. Simoncelli era uno di quelli che magari la sera andava a vedere le luci della centrale elettrica, dopo la discoteca, e no, non passava per le salette vip. C’era nel suo essere dimesso, l’allusione alla sua provenienza. La motogp ti sporca la tuta, devi parlare con i meccanici oltre che con gli ingegneri, devi essere ancorato alla realtà, non ti puoi permettere le distanze, e lui non le aveva nemmeno per carattere. La sua vita diventa un manifesto nel quale si riconoscono i ventenni di oggi, quelli che sfilano in chiesa a Coriano, come i bimbi degli anni ottanta si riconobbero nella caduta di Alfredino Rampi, la prima morte in diretta tv. Perché la domesticità della morte, passa per Gheddafi: lo dimenticheranno in fretta, ma non per il ragazzo sotto casa, e Marco Simoncelli, lo era.
Per i giornali sarà il Senna italiano morto mentre sfidava se stesso e la velocità, ma per i suoi coetanei sarà il Cobain che però si divertiva ancora. Lo porteranno sulle maglie, lo appenderanno nelle stanze, lo santificheranno e magari ci faranno anche gli orologi, ma per chi ha la sua età, sarà una cicatrice. Il pizzo pagato alla giovinezza, il dolore che ti fa crescere, il sacrifico, di un Ettore, appunto, per una intera comunità. Fatta di precarietà, strafottenza, allegria da sommare durante la settimana tra università e lavoro, portare in giro il sabato sera, tirato fino alla motogp della domenica, quando: chi ti balla di fianco, corre, anche per te, e si piega a cercare la curva giusta, di tempo e rabbia, per svoltare e sperare ancora. E se non la trova, piangi, perché con lui, cadi anche tu.
http://mexicanjournalist.wordpress.com/2011/10/29/quando-le-moto-avevano-i-vasi-fioriti/