Istituzionale, politica, sociale, economica. Peggio: storica. E’ la crisi italiana, aperta dalla sconfitta dell’ottobre 1942 (El Alamein), prima ancora che dalla resa dell’8 settembre 1943. Già nel novembre 1954, col ritorno di Trieste alla madrepatria, essa pareva risolta. Ma era solo rimossa e si sa che il rimosso torna con la stessa forza della rimozione.
Come un fiume carsico, la crisi scomparve dalla vista per riapparire nella sua gravità dopo una catena di eventi: declino demografico ininterrotto dal 1964 e conseguente immigrazione legale e clandestina; fine della Guerra fredda (1989) e quindi del ruolo strategico della Penisola; mutazione del fasto Mercato Comune in nefasta Unione Europea (1992). Infine, introduzione dell’euro (2002) e cambio iugulatorio con la lira.
Una serie di condanne morali, giudiziarie e poi di lutti – Pio XII, Enrico Mattei, Aldo Moro, Paolo VI, Bettino Craxi, Giulio Andreotti – ha suggellato la fine della residua sovranità nazionale. Ora c’è “interdipendenza”, cioè vassallaggio ora continentale, ora atlantico. Era destino? No.
La convinzione che l’Italia restasse una grande potenza sopravvisse all’8 settembre 1943: alla ben più strutturata Francia non era accaduto di crollare più alla svelta dell’Italia, nel giugno 1940? Nell’ultimo decennio questa convinzione della diplomazia italiana si è però dissolta quasi del tutto.
Tra le aree in cui il rispetto dell’Italia è un ricordo c’è l’America latina. Ne parlo con Giovanni Marocco. Torinese, già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay. Marocco vive a Montevideo (Uruguay), dove legge, tra l’altro, i saggi di Oswald Spengler e Piero Buscaroli, e scrive racconti sull’Italia, anche su quella della guerra civile, cominciata proprio l’8 settembre 1943.
Signor Marocco, s’estinguono le generazioni di emigrati in America latina: i discendenti, a tutti gli effetti latino-americani, ricordano le origini?
“Quando serve. L’immagine dell’Italia risulta ad alcuni penosa perché essa non è più la mucca da mungere degli anni ’80-’90. Influiscono anche le vicende personali di Berlusconi, le sguaiatezze di Grillo, della Lega, ecc. In certo modo confermano una vecchia immagine negativa dell’Italia, perfezionano il discredito”.
Il Sud America ci snobba.
“Retorica a parte, in Argentina non hanno mai amato molto né l’Italia, né gli italiani. Abbastanza diverso è in Uruguay.”
Perché?
“Qui, come altrove, agiscono tutti gli stereotipi negativi, sebbene oltre metà degli argentini e degli uruguaiani abbia sangue italiano”.
Un segno di questo declino?
“Molti argentini tifano per chiunque giochi a calcio contro l’Italia”.
Anche per gli inglesi?
“Forse no. Ma certi oriundi italiani preferirebbero esser oriundi inglesi”.
Rivalità ci sono ovunque. Tra italiani, francesi, tedeschi accade lo stesso che tra argentini, brasiliani, cileni.
“E’ così. La differenza principale è che, dal dopoguerra, gli italiani s’illudono di essere, se non amati da tutti, simpatici a molti. Invece non lo sono”.
Nel 1982 gli italiani d’Italia tifavano Malvine ed era una guerra, non una partita. Eppure, nel 1990, durante i Mondiali di calcio, l’inno argentino fu fischiato a Milano e Roma.
“Colpa di Maradona, per le idiozie dette contro l’Italia del Nord o comunque non napoletana”. Allora io ero console generale a Bahía Blanca. Il giorno della finale restai tappato in casa, mentre varie auto passavano, suonando il clacson ed insultandoci!”.
In Uruguay…
“… Qui, durante la guerra delle Malvine, non pochi speravano che gli argentini perdessero, perché scriteriati patrioteros dell’altra sponda del Plata volevano recuperare, con le Malvine, sud del Cile e Banda Oriental (l’Uruguay – Ndr)!”.
Dunque della crisi italiana ai sudamericani ora importa…
“… Ben poco. Tranne ai calciatori, che ora trovano in Italia meno acquirenti e minori compensi”.
Passaporto rosso di Guido Brignone (1935) e Dagli Appennini alle Ande di Flavio Calzavara (1943), Emigrantes di Aldo Fabrizi (1949) e Il gaucho di Dino Risi (1964) sono film su questa estraneità.
“Gli italiani con meno di sessant’anni dal cinema conoscono solo l’America Latina della repressione militare e delle ambasciate italiane durante le fasi critiche successive ai colpi di Stato”.
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In Missing di Costa-Gavras (1982) l’ambasciata in Cile ospita ricercati dopo il golpe del 1973; in Complici del silenzio di Stefano Incerti (2009), l’ambasciata italiana non lo fa dopo il golpe del 1976.
“Stanca del caos con Isabelita Peròn, la stragrande maggioranza degli argentini accolse bene il golpe…”.
… Ma la strapiccola minoranza no!
“Le relazioni dell’Argentina di Videla con l’Urss, per esempio, erano ottime. Solo anni dopo emersero vicende tenebrose”.
Che cosa ricorda delle atmosfere di guerriglia urbana e repressione?
“Ero a Montevideo nel 1980. Qui e a Buenos Aires le ambasciate d’Italia facevano il possibile, in termini umanitari. Ma sarebbe stolto pretendere che esse appoggiassero logisticamente l’eversione di sinistra. Peraltro nel 1980 l’eversione era stata sconfitta. C’erano già ‘grandi manovre’ per tornare alla democrazia. I militari volevano lasciare il governo, sia pure ponendo condizioni”.
La guerriglia era stata condotta da…
“… una variegata galassia: idealisti, fanatici, delinquenti ideologizzati, assassini, guerriglieri e bombaroli addestrati a Cuba. I militari ebbero le loro colpe, commisero eccessi, ma impedirono la guerra civile in Cile e in Argentina”.
E in Uruguay?
“Qui i militari avevano già sconfitto l’eversione armata in tempi di democrazia. Con Pacheco presidente. Bastava un minimo di accordo tra i partiti dei blancos e dei colorados nel 1973 per evitare golpe e governo militare. La sinistra preferiva in fondo i militari (puntava sulla corrente ‘peruviana’, di sinistra) alla democrazia parlamentare. Ci furono, credo, una sessantina di desaparecidos. In Argentina oltre novemila”.
E l’Operazione Condor?
“Il coordinamento dei servizi segreti di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay? Essenzialmente fu un’invenzione della sinistra giornalistica europea. Nulla di organico o istituzionalizzato. Fu solo un’estemporanea collaborazione tra servizi segreti di governi amici. Come sempre e ovunque. E una collaborazione limitata: non tra argentini e cileni, per esempio!”.
I Tupamaros ora governano a Montevideo.
“Perché, invecchiando, hanno mutato discorso, si sono imborghesiti, hanno ripudiato la lotta armata, ecc. Perché è finita la Guerra Fredda, è cambiato il mondo e la dittatura del proletariato fa ridere, anche a sinistra. Perché l’Uruguay è in larga misura un Paese di pensionati e impiegati pubblici, che si sentono ‘protetti’ dal presidente Mujica e compagni. Paradossalmente qui l’estrema sinistra è estremamente conservatrice. Per la sinistra al governo il problema sono le pretese di sindacati. Non la destra”.
C’è un effetto Venezuela nel Cono Sud?
“Il ‘Socialismo del secolo XXI’ viene visto da questa sinistra con scetticismo. Ma quattrini e crediti venezuelani fanno comodo. Ora, con l’autista Maduro al posto di Chavez – controverso, ma popolare, uomo d’ordine in fondo, un militare come Perón – chissà come finirà”.