Tanto la favola quanto il fantastico nel suo insieme possono essere intesi come qualcosa di ancestrale, di atavico. Diversamente detto, sono manifestazioni che si ritrovano in tutte le culture e in tutte le epoche storiche, in una specie di connubio volto a far sì che si possa parlare di un’universalità tematica. Tale universalità è ancora più evidente allorquando la figura di riferimento è quella di Italo Calvino (Cuba, 1923 – Siena, 1985), indubbiamente, non solo tra i maggiori autori contemporanei italiani e tra i più famosi e tradotti nel mondo, ma anche uno degli autori che maggiormente ha vissuto da presso tutte le esperienze essenziali della storia intellettuale postbellica, sia nell’accompagnare le trasformazioni della cultura italiana e internazionale nel corso di quarant’anni, sia nel contribuire alla nascita dello “sperimentalismo” e della ricerca di nuovi orizzonti linguistici e tematici estranei al neorealismo.
Difatti, già a partire dal 1947 – all’epoca della pubblicazione del romanzo Il sentiero dei nidi di ragno e di una serie di racconti, molti dei quali sarebbero stati raccolti, nel 1949, nel volume Ultimo viene il corvo – Calvino si è fatto portatore di un’immagine più giovane, vitale e fresca del neorealismo italiano, inteso anche in termini di compromesso politico.
Fu proprio negli anni Cinquanta che in Italo Calvino – il quale non aveva mai abbandonato completamente in quell’epoca l’orbita del neorealismo, e che anzi s’era sforzato a focalizzare situazioni e caratteristiche della vita sociale contemporanea, indagando, ad esempio, la nuova realtà industriale e tutto quel che risultava alla base delle trasformazioni vissute dalla società italiana epocale, nonostante avesse rinunciato apertamente a una qualunque visione schematica di compromesso intellettuale – si è messa in luce con più forza la sua singolare disposizione ad abbandonarsi alla manifestazione del comico, al fiabesco, alla favola morale, disposizione che già caratterizzava alcune sue opere narrative giovanili, e di assoluta evidenza, ad esempio, ne Il visconte dimezzato (1952).
Con riferimento proprio a questo romanzo breve, di grande interesse è quel che Calvino scrive nella Nota 1960 – una nota postfazione inclusa, nel 1960, nel volume I nostri antenati:
«Era la musica delle cose che era cambiata […]. La realtà entrava in binari diversi, esteriormente più normali, diventava istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non attraverso le loro istituzioni; e anch’io ero entrato a far parte d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle grandi città, in abito grigio e camicia bianca. […] Così, in uggia con me stesso e con tutto, mi misi, come per un passatempo privato, a scrivere “Il visconte dimezzato”, nel 1951. […] Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a rimettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza. In partenza avevo solo questa spinta, e una storia in mente, o meglio un’immagine. All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. […] È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto» (CALVINO, 2011: 409-418 [410-411])
Queste parole di Italo Calvino sono illuminanti, poiché l’affermazione che solo nel momento in cui si scrive «ogni cosa finisce per andare al suo posto» evidenzia una sua ulteriore disposizione, quella di aver vissuto una relazione quotidiana con la scrittura. Una relazione non facile, né sempre idillica, considerando, ad esempio, che durante molto tempo egli fu un autore che caparbiamente andò contrò la sua vera natura, opponendosi alla tipologia di scrittura a lui più congeniale e innata, ossia, quella fantastica o fiabesca. Difatti, la costrizione politica, che lo aveva tormentato durante gli anni Cinquanta, gli si sarebbe rivelata come una sorta di prigione, dove l’unico spazio in cui la letteratura poteva avere libertà di muoversi era lo spazio dominato interamente dall’ideologia. I risultati, tuttavia, di questa sua insistente volontà di essere soprattutto uno scrittore impegnato, più di romanzi che di racconti, sarebbero stati abbastanza deludenti. Tant’è che, in pratica, sempre dubitò e fino alla fine – errando, ovviamente, in tale sua spontanea affermazione, in considerazione della sua grandezza e della fama raggiunta nel mondo intero – di essere stato un «vero scrittore» (IBID.: 410).
Nel frattempo, l’interesse per il fiabesco portò Calvino a indagare la tradizione favolistica italiana, giungendo a pubblicare, dopo due anni intensi di ricerca, nel 1956, il volume Fiabe italiane. Raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti, un’ampia raccolta precisamente di duecento favole estrapolate – come recita il sottotitolo – dalle differenti tradizioni regionali della Penisola italiana, dal Nord al Sud, riproposte in una lingua semplice e chiara, con l’intento esplicito di presentare un tipo di linguaggio stilisticamente non molto pronunziato e accessibile anche a un pubblico infantile. Fu questo, senz’alcun dubbio, uno degli aspetti più importanti, quando non proprio il più importante di tale operazione di scrittura, poiché in questo lavoro duplice di documentazione e ricreazione Calvino portò a conclusione un esercizio stilistico che gli avrebbe dato la possibilità di combinare linguisticamente in maniera eccelsa vari meccanismi narrativi, eliminando sovrabbondanze ridondanti ed espressionistiche nonché gli eccessi delle pause liriche e sentimentali.
In una lettera dell’aprile 1967 indirizzata a John R. Woodhouse – un professore di Oxford, interessato alla trilogia degli antenati – Calvino confessa: «Per sapere che italiano scrivo non c’è che studiare linguisticamente la mia raccolta di “Fiabe italiane”» (IDEM, 2000: 950).
Nel commentare tale affermazione, una studiosa calviniana, Francesca Serra, dirà in un suo saggio pubblicato nel 2006:
«Se è vero che la lingua di Calvino è uno dei maggiori lasciti del nostro Novecento letterario, l’affermazione risulta assai impegnativa; ma quantomai vera: perché le “Fiabe italiane” sono davvero il luogo di distillazione in cui la lingua di Calvino maturò in modo definitivo» (SERRA, 2006: 106).
Inoltre, occorre constatare come, sostanzialmente, questo lavoro di ricerca e ricreazione delle Fiabe italiane sia stato per Calvino una sorta di medicina che lo avrebbe sia liberato dall’eccessivo peso del romanzo, sia curato dalla sua ostinazione neorealista e dalla sua diffidenza nei confronti del fiabesco. Ciò spiega il mutamento repentino avutosi in lui all’indomani della pubblicazione delle Fiabe, in considerazione dell’entusiasmo con cui agli inizi del dicembre 1956 iniziò a scrivere il suo nuovo libro, editato l’anno successivo – parlo, ovviamente, della straordinaria e meravigliosa “libera invenzione” de Il barone rampante. Cosicché, anche grazie al grande successo commerciale ottenuto da entrambe le opere, tale mutamento avrebbe avuto una ricaduta altamente positiva sul profilo pubblico stesso di Italo Calvino. In altre parole, la narrativa favolosa o fiabesca sarebbe andata a occupare un posto, a un tempo, importante e preminente nell’opera calviniana, configurandosi, non come un semplice genere o sottogenere, ma come un vero e proprio “modello”, un corpus narrativo, meglio ancora metanarrativo, considerando la dimensione critica caratterizzante la riflessione dello scrittore italiano. Per il poeta e critico Roberto Deidier,
«la fiaba [in Calvino] non resta confinata nella categoria del genere, ma si traduce praticamente in una funzione letteraria che attraversa più strati della scrittura, unificandoli in un unico percorso. Realismo e allegoria, metafora e ironia, discorso fantastico e narrativa combinatoria divengono quindi i vettori di una mentalità centrifuga, di un enciclopedismo mai chiuso in se stesso né accumulatorio, quanto aperto e problematico, che indaga la molteplicità nei modi di una scrittura straniante» (DEIDIER, 2004: 42).
Quanto al fantastico e al favoloso calviniano merita di essere citata parte di un’intervista radiofonica concessa alla fine degli anni settanta dal noto saggista e semiologo francese Roland Barthes:
«Penso che [Calvino] abbia un’immaginazione molto particolare ed elaborata: fondamentalmente la stessa di Edgar Allan Poe e che potrebbe essere definita come l’immaginazione procedente da una certa meccanica (…). L’immaginazione, forse la grande immaginazione, è sempre lo sviluppo di una certa meccanica (…). (Calvino) propone una situazione che in generale è, per così dire, irrealista da un punto di vista del verosimile, ma solo inizialmente, poiché in seguito tale situazione irrealista si sviluppa in modo implacabilmente realista e implacabilmente logico» (Cit. in CIOTTA NEVES, 2007: 103].
Un particolare interessante nell’opera calviniana è il ricorso al numero tre, da interpretare, a livello letterario, in funzione di trilogia. Tale ricorso da parte dello scrittore forse è dovuto a una sua certa insicurezza o insoddisfazione, nella convinzione che un’unica opera scritta e analizzata singolarmente dal pubblico lettore non sarebbe sufficiente a spiegarne in modo esaustivo il vero significato. Da qui discende la sua necessità di ricorrere a una sistematizzazione ciclica. Nel concretizzare tale sua convinzione, Calvino, nel 1954, pubblica la trilogia dei racconti autobiografici di Entrata in guerra, per poi seguitare – ma solo a livello di intenti – con le Cronache degli anni Cinquanta, ossia, la trilogia realista che non riuscirà a portare a termine, come del resto occorrerà con altre opere o progetti d’opera, lasciandoli «manoscritti nel cassetto» (CALVINO, 2011: 410).
Inoltre, occorreva risolvere il “caso” di quell’ibrido pubblicato nel 1952, casualmente sfuggito, per così dire, dalle mani dello scrittore e, di conseguenza, rimasto in sospeso, non sapendo Calvino se classificarlo come un romanzo o come un lungo racconto. Il riferimento è al già menzionato Il visconte dimezzato, il cui grande successo lo aveva sorpreso – si direbbe – in maniera negativa. Sicché, proprio allo scopo di rimediare a tale errore ecco la decisione, nel 1957, di pubblicare Il barone rampante, così da dare concretezza a un disegno “araldico-fiabesco”, che di certo, all’inizio, allorquando occorse la pubblicazione de Il visconte dimezzato, Calvino non aveva messo in conto. Per lui, tuttavia, non era sufficiente. Soltanto il ricorso al numero tre avrebbe potuto portare a termine qualcosa avvertito come ancora incompleto. Mancava un terzo e ultimo romanzo per concludere la trilogia e, di conseguenza, il ciclo che era andato foggiandosi “a tappe” nella sua mente. Ciò si sarebbe concretizzato, nel 1959, con Il cavaliere inesistente. Subito a seguire, nel 1960, Calvino avrebbe raccolto la trilogia in un unico volume sotto il titolo I nostri antenati, includendovi alla fine una nota postfazione (Nota 1960), esplicativa non solo quanto alla scelta delle tre «storie» che erano andate a formare il ciclo “araldico-fiabesco”, ma anche del perché ritenesse quest’ultimo oramai definitivamente concluso (IBID.: 409-418):
«Raccolgo in questo volume tre storie che ho scritto nel decennio ’50-60 e che hanno in comune il fatto di essere inverosimili e di svolgersi in epoche lontane e in paesi immaginari. Date queste caratteristiche comuni e nonostante altre caratteristiche non omogenee, si pensa che costituiscano, come suol dirsi, un “ciclo”, anzi un “ciclo compiuto” (cioè finito, in quanto non ho intenzione di scriverne altre)» (IDEM: 409).
Cosicché,
«delle tante trilogie pensate, progettate, travestite o accantonate solo questa rimane in piedi: la trilogia di Calvino è oramai per antonomasia quella degli antenati» (SERRA, 2006: 156).
Come già ricordato, l’interesse per la favola da parte di Italo Calvino si lega alla sua grande passione per la letteratura fantastica, in particolare per i personaggi e le avventure dei romanzi cavallereschi. Tant’è che uno dei suoi autori preferiti e amati è stato Ludovico Ariosto, del quale sempre ammirò la capacità di far coincidere nella sua opera il meraviglioso e l’ironia. Ebbene, questo gradimento per il favoloso e il meraviglioso, cui s’accompagna una fugace ironia, lo ritroviamo ottimamente rappresentato nella trilogia I nostri antenati – titolo che mette in luce il legame con il presente degli avvenimenti vissuti dai tre protagonisti, “nobili da favola”, per così dire, a seguito delle relazioni inabituali con se stessi e la realtà. In concomitanza, questa trilogia fa sì che si possa parlare di uno scrittore dotato di predisposizioni assolutamente particolari, uniche. Difatti, in ognuno di questi tre romanzi brevi Italo Calvino dimostra come sia possibile far coincidere l’invenzione più libera con l’attitudine morale e la razionalità umana, senza alcuna intenzione dogmatica e con un chiaro riferimento ad alcuni aspetti della letteratura illuminista, in modo particolare al genere della favola morale e ironica abbastanza diffuso nel secolo XVIII.
Fondamentalmente, siamo in presenza di tre opere narrative che possono essere lette come delle vere “parabole” sulla ragione; in altre parole, come un connubio indissolubile tra favola, morale e invenzione narrativa. Tutte si basano sullo stesso dispositivo narrativo, con una regola identica; regola, questa, che era già stata enunciata chiaramente nel 1956, in occasione dell’introduzione alle Fiabe italiane:
«l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste» non è un’allucinazione, poiché – scrive Calvino – «le fiabe sono vere» (CALVINO, 1993: 12-13).
Con tali presupposti, secondo lo scrittore italiano, la metamorfosi ha la grande capacità di sfuggire – nelle parole di Francesca Serra –
«allo spaventoso dominio dell’allucinazione non attraverso il suo scioglimento razionale, il suo dissolversi in una qualche spiegazione; ma viceversa prendendola per vera. Il trucco consiste nel dare corpo alla figura e concretizzarla: nel caso per esempio di una metafora, la quale per definizione cancella il “come” tra il primo e il secondo termine di un paragone, prendere sul serio l’identità stabilita tra quei due termini. E quindi prolungarla fino alla reale metamorfosi del primo nel secondo: l’uomo diviso lo sarà dunque per davvero, con tutto ciò che ne consegue, e così l’uomo sospeso in aria, che vivrà per davvero tra gli alberi, fino all’uomo vuoto, che consisterà davvero soltanto in un’armatura che parla e cammina. Questa è la regola del gioco alla quale tutti e tre i romanzi della trilogia degli antenati sottostanno. Secondo un principio di animazione narrativa che ha il suo più illustre prototipo per l’appunto nelle “Metamorfosi” ovidiane; ma che è ben conosciuto dal fiabesco e in generale dal fantastico» (SERRA, 2006: 158).
A proposito di regola o regole, ecco quel che scrive Calvino, nella già citata Nota 1960, facendo riferimento specificatamente a Il visconte dimezzato, un’affermazione che, tuttavia, si estende anche agli altri suoi due romanzi brevi della trilogia:
«Il racconto mi richiamava per sua spontanea interna propulsione a quello che è sempre stato e resta il mio vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri» (CALVINO, 2011: 413).
Sicché, «l’idea portante dei tre romanzi non era semplicemente un espediente per poter esprimere in modo originale e indiretto qualcos’altro», ossia, ad esempio, l’epoca storica in cui si sviluppano le vicende o «ciò che sta fuori dal libro» (SERRA, 2006: 159). Ma rappresenta, soprattutto,
«un espediente di autofondazione e alimentazione del racconto stesso. Perché l’uso letterale della metafora esercita su Calvino l’irresistibile fascino di una grande macchina d’induzione narrativa» (IDEM: 159).
Italo Calvino conclude la Nota 60 con queste importanti e fondamentali parole, poiché rappresentano, a un tempo, una conferma e un auspicio quanto alla trilogia degli antenati:
«Ho voluto farne una trilogia d’esperienze sul come realizzarsi esseri umani: nel “Cavaliere inesistente” la conquista dell’essere, nel “Visconte dimezzato” l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel “Barone rampante” una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale; tre gradi di approccio alla libertà. E nello stesso tempo ho voluto che fossero tre storie, come si dice, “aperte”, che innanzitutto stiano in piedi come storie, per la logica del succedersi delle loro immagini, ma che comincino la loro vera vita nell’imprevedibile gioco d’interrogazioni e risposte suscitate nel lettore. Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso» (CALVINO, 2001: 418).
Bibliografia di riferimento
– CALVINO, Italo, 1993. Fiabe italiane. Raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti. Prefazione di M. Lavagetto. Mondadori. Milano.
– CALVINO, Italo, 2000. Lettere 1940-1985. A cura di L. Baranelli. Mondadori. Milano.
– CALVINO, Italo, 2011. I nostri antenati. Oscar Mondadori. Milano.
– CIOTTA NEVES, Rita, 2007. Italo Calvino, lições de modernidade. Prefácio de José A. Bragança de Miranda. Edições Universitária Lusófonas. Lisboa.
– DEIDIER, Roberto, 2004. Le forme del tempo. Miti, fiabe, immagini di Italo Calvino. Sellerio editore. Palermo.
– SERRA, Francesca, 2006. Calvino. Salerno Editrice. Roma.
[Questo articolo, qui rivisto e in forma abbreviata, è stato per la prima volta pubblicato in portoghese nella rivista on-line brasiliana «Olho d’água» (São José do Rio Preto), 4 (2), Julho-Dezembro 2012, pp. 96-103, nonché di recente nella rivista cartacea portoghese «NOVA ÁGUIA – Revista de Cultura para o Século XXI» (Sintra), No27 – 1o Semestre 2021, pp. 194-198].
D’accordo su Il cavaliere inesistente e soprattutto su Il visconte dimezzato (è questo il miglior Calvino) ma, a mio avviso, Il barone rampante non regge il confronto con le due precedenti narrazioni, è noiosa la vicenda, troppe lungaggini e dettagli tolgono ritmo e interesse alla storia, letterariamente mi sembra un fiasco.
Il primo è il più bello. Di Calvino era fastidioso il moralismo comunista, il sentirsi il migliore, lui con i suoi. Quel suo racconto sulla giornata elettorale non è male, anche se i rappresentanti del PCI sempre imbrogliavano le carte, a Torino, per avere qualche voto in più al termine di estenuanti scrutini nella notte del lunedì delle elezioni… Brutta gente…