Perfino un santo laico come Jean Baptiste d’Alembert, sodale di Diderot nella titanica impresa di dar forma all’Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, aveva deciso, dalle pagine di un suo testo meno noto intitolato Saggio sui rapporti tra intellettuali e potenti, di mettere in guardia i propri connazionali dalle insidie rappresentate da quella che l’illuminista francese aveva battezzato “moda dell’anglismo”. Questa tendenza, alimentata dall’amore per l’esotico, dalla convinzione, figlia dell’empirismo, che sia un miglior modo di osservare quello che distanzia l’osservatore dall’osservato e da una lunga sequenza di opere (dalle Lettere persiane di Montesqiueu al Micromega di Voltaire) con protagonisti provenienti da mondi lontani, intenti a leggere l’Europa dell’epoca con occhi alieni, consisteva nel concedere maggiore fiducia alle parole pronunciate da uno straniero, in lingua straniera, rispetto a quelle di un connazionale, pronunciate nella propria. E, questo, indipendentemente dal reale interesse del suo discorso o dalla sua accertata preparazione.
Quasi 300 anni dopo, e in barba agli ammonimenti del philosophe, l’anglismo continua a imperversare. L’unica differenza è rappresentata dai luoghi in cui si manifesta: nel 700 spopolava in salotti affrescati, oggi, invece, in salotti televisivi. Non è inconsueto che un parlamentare o un giornalista, infatti, trovandosi nella necessità di affondare un avversario politico, e volendolo inchiodare alle responsabilità dei suoi insuccessi, si giochi la carta del “giudizio terzo”, limpido e disinteressate, proveniente dalla stampa estera. Ha poco da scaldarsi, a quel punto, l’accusato di incompetenza internazionale. Valgono a nulla le rimostranze controbattute a chi gli pone davanti i titoli di Libération, The Guardian e Finacial Times, di “intendersela con lo straniero” che vuole deliberatamente indebolire il paese screditandolo sui mezzi di informazione. Non siamo in guerra e il patriottismo è giudicato tremendamente retrò. Nemmeno serve far notare, come ha fatto Jean-Pierre Darnis dalle pagine de Il Foglio, che i corrispondenti stranieri, presunti oracoli di imparzialità, sono uomini, o peggio, giornalisti (cioè uomini consci che le loro opinioni andranno vendute) e come tali si adagiano su semplificazioni utili a favorire le tirature dei loro giornali, raschiando il fondo di un barile di temi scabrosi che, magari non rappresenteranno il paese ma garantiranno fonte inesauribile di quelle “notizie vendibili all’estero in cui si trovano miscelati lo scandalo, il brivido e la possibilità di evidenziare senza grossi sforzi la superiorità di paesi dove ‘non capiterebbe una cosa simile’”.
@barbadilloit