Era la sfida della 56esima stagione delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa: affidare l’umanità spiazzante di Euripide alle acrobazie circensi di Carlus Padrissa.
D’altronde, sia il theologhéion di Euripide, la macchina che calava il dio sulla scena a risolvere i conflitti degli uomini, sia le funi e i materiali scenici della Fura dels Baus sono la sintesi tra il rituale e l’ipertecnologico: comune denominatore delle ultime stagioni INDA nella direzione del teatro di ricerca e di avanguardia. Solo che di avanguardia nelle “Baccanti” versione Padrissa c’è poco. Non basta la scenografia (curata dallo stesso Padrissa come le musiche) a dettare la resa tecnologica. Una gabbia di metallo bianco con la foggia di una testa è la reggia di Penteo; dello stesso materiale un enorme manichino- un po’ tra De Chirico, un po’ Ufo Robot- a simboleggiare Dioniso; sullo sfondo un altro enorme manichino appeso alla gru, che a inizio spettacolo eiacula il dio, e poi porta il trabiccolo di ferro su cui sono appesi i trentasei elementi del coro.
Non basta nemmeno la trovata della aspirapolvere con cui Cadmo, sbucato da una botola al centro dell’orchestra, spazza la cenere dai nomi della stirpe di Dioniso e Penteo. Non basta scrivere sulla genealogia Dionisa per politicizzare il messaggio. Non basta nemmeno l’intermezzo del rapper Domenico Lamparelli, sebbene di grande impatto e molto di più dell’omaggio a Battiato, commovente ma superfluo.
Non bastano, ma il contagio creativo, cifra della Fura, complice il testo euripideo, avviene comunque. In forza anche della felice idea della contaminazione con la lingua spagnola.
Baccanti fu rappresentata nel 405 e va iscritta nel periodo della crisi di Euripide, che si distacca dalle posizioni nazionaliste e si avvicina alla classe media, depositaria degli antichi valori, compresi il riscatto della condizione femminile e la dimensione religiosa.
Il testo euripideo (tradotto da Guido Paduano,) è esile nell’azione: Penteo, re di Tebe, vuole impedire che nella sua città si affermi il culto del dio cugino Dioniso scontrandosi con il padre Cadmo e Tiresia decisi ad adeguarsi al nuovo rito. Il dio arriva a Tebe dall’Oriente con sembianze umane di uno straniero banditore del nuovo culto. Dioniso riesce a condurre Penteo sul monte Citerone, travestito da femmina, e lo fa sbranare dalle Baccanti e dalla sua stessa madre Agave.
Al centro del testo c’è un enigma insolubile: Euripide condanna l’eccesso orgiastico del dionisismo o fa un atto di conversione, per cui la mattanza di Penteo e lo strazio di Agave sono un monito?
L’allestimento di Padrissa non dà risposte, perché verte tutto sulla fisicità, cifra dell’esaltazione divina e irrinunciabile espressione teatrale. Non la parola, ma il corpo sinuoso, felino, sensuale, impudico domina il gioco drammatico, assieme al frastuono degli strumenti bacchici.
Eccole, le Baccanti.
Arrivano da tutte le parti: si precipitano dalle gradinate e invadono ogni spazio del teatro, stordiscono e confondono gli spettatori. Sono in scena, nella cavea, tra le pietre e oltre. Si arrampicano, urlano, cantano, battono i tamburi, brandiscono il tirso. Sono tante e delirano, si scuotono, si contorcono, si gettano lascive a terra e lascive aprono le bocche. Un marasma di corpi sfrenati, con i vestiti a brandelli, le calze bucate, i capelli arruffati, il trucco pesante.
Un’orgia scomposta occupa lo spazio del teatro fino al cielo, somigliante a una massa di manifestanti di tardo punk metropolitano: più Madonna primo look che attivisti dei centri sociali. Un coro di donne ribelli, in preda a un’energia irrefrenabile che danza al ritmo di tamburi e del tirso.
Ma immaginiamo così pure le Baccanti messe in scena da Euripide, ovviamente senza i cartelli del metoo e senza il prevedibile striscione “Todos somos bacco” sventolato nella seconda invasione del coro.
Baccanti di Padrissa sfiora l’avanguardia, anzi può dirsi davvero tradizionale. E la spia è proprio Dioniso.
O meglio quel mattatore meraviglioso che è Lucia Lavia, la cui interpretazione vale tutto lo spettacolo. Dioniso può essere femmina solo se a interpretarlo c’è un’attrice con la sua potenza vocalica, con la sua versatilità di ritmo e di toni, con la capacità metamorfica di farsi umana e divina nel momento di un gesto o di una frase.
Lucia Lavia si appropria, forse malgrè Padrissa, del teatro di parola come fa il perfetto Stefano Santospago nel ruolo di Cadmo, soprattutto nel dialogo con Agave.
Linda Gennari è un’Agave brutale e disperata.
Un crescendo è l’interpretazione di Ivan Graziano, più a suo agio nelle vesti del Penteo irriso da Dioniso che del re figlio invischiato nel battibecco familiare.
Antonello Fassari è un Tiresia con poco abbrivio e d’altronde Euripide depotenzia l’indovino da profeta a vecchio coscienzioso.
Prove d’attore generose (come quelle dei messaggeri Antonio Bandiera, Spyros Chamilos e Francesca Piccolo) di fronte a una regia tecnicamente bella ma non esaltante per emozioni.
Padrissa fa Padrissa furero, con tutte le lettere del suo alfabeto scenico compresa l’acqua che scorre dall’alto, vedi Carmina Burana. Il merito di Padrissa sta nella costruzione del coro. Eccetto pochi elementi (una su tutti Viola Marietti), corifei appartengono all’Accademia D’Arte del Dramma Antico della Fondazione Inda.
I giovani allievi Hanno dimostrato maturità artistica, fura drammatica, resistenza fisica, capacità di sperimentare. Sono loro la vera avanguardia di questo spettacolo, la sorpresa e la sfida vinta della stagione.
Insieme alle artiste e docenti Simonetta Cartia ed Elena Polic Greco (suggestivi i loro canti), Giulia Valentini e Doriana La Fauci, senza dimenticare Emiliano Bronzino, assistente alla regia. Segno che la scuola dell’Inda è una delle realtà più prestigiose del teatro italiano. E non solo per gli attori. Alla realizzazione di Baccanti hanno contribuito tutte le maestranze dell’Inda: dalla sartoria con in testa la costumista Marcella Salvo che ha realizzato i disegni di Tamara Joksimovic al laboratorio di scenografia e a Carlo Gilè.
Proprio sul solco della tradizione si mette Padrissa quando fa salire Dioniso sulla giostra acrobatica a declamare le sue ultime parole. Non fu la Medea di Peter Stein a elevarsi dalla scena del Teatro di Siracusa sul carro del Sole? Omaggio del catalano a un’avanguardia che si fa tradizione: il passato spesso si fa destino. Ubbidiente al monito finale della stessa Dioniso “Perché continuate a esitare di fronte al destino?”