Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto de “Il conflitto costituente. Da Platone a Machiavelli” di Edoardo Dallari edito da Mimesis.
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La critica della ragion politica machiavelliana mostra la necessità per cui il Politico non possa agire con verità al fine di armonizzare i distinti conflittuali e reagire e rimediare al declino necessariamente possibile degli ordinamenti. Non esiste una «vera via» da seguire, egli sperimenta, tenta, nell’ambivalenza del reale, di tenere in forma il divenire: la sua è una politica del nondimanco, dell’insecuritas, dello slancio e del coraggio, delle congetture, del tuttavia, del ma anche. L’arte della pace e della libertà è effettuale qualora sappia guardare faccia a faccia il negativo dell’umano e farsene carico per volgerlo a un positivo che, di per sé, è sempre sospeso sulla necessaria possibilità della propria negazione.
«Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare; perché, non essendo dalla natura concesso alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, di necessità, non potendo più scendere, conviene che le salghino; e così sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene; perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna». E dove affonda le radici la dynamis del rivolgimento degli ordinamenti? Da dove la “resistenzialità” del reale a farsi mettere in ordine, le volontà contrastanti che resistono alla prassi ordinatrice e la mutevolezza dell’ordine che a fatica si deve poter generare? Perché gli uomini «non sanno essere né al tutto tristi né al tutto buoni», perché l’umano è un poter desiderare tutto e non poter conseguire tutto ciò che desidera. Il «principe savio» sa che non è dato essere contenti, pienamente soddisfatti nel fine, benché si insisterà sempre a volerlo essere: l’uomo non ha un carattere definito-definitivo e la sua volontà non è mai assolutamente potente.
È un vuoto costante da colmare e il Vuoto avvia al suo riempimento, all’attività del mettere in forma, dell’ordinare affinché si crei quanta più stabilità, sapendo abitare uno spazio possedendolo per muoversi in esso con libertà, per sentirsi a proprio agio, a casa. Al contempo l’esserci è apertura al non-ancora del futuro immanente a ogni stare, il quale a sua volta custodisce in sé l’istante che toglie-via dalla forma assunta. Nessun atto pienamente in-forma si dà che non sia in se stesso potenza della sua negazione, possibilità dell’annientamento del raggiunto. L’uomo sosta in determinate forme e le oltrepassa in quanto soglie. L’eterna insoddisfazione esistenziale appartiene ontologicamente all’umano. Questo alimenta di fatto la dinamicità del divenire e il conatus alla trasformazione cui il Politico in un qualche modo dovrà corrispondere, destreggiandosi tanto tra l’esigenza di fissità quanto tra quella del diventar-altro, dell’aver da essere dei fini immanenti alle volontà che si relazionano agonicamente nello spazio abitato.