È da poco uscita la nuova serie “Il monastero” basata sull’omonimo romanzo di Zachar Prilepin. In questo romanzo è narrata la storia di Artëm Gorjainov, ex studente condannato a una pena di tre anni da scontare nelle isole Solovki, dove si trova un antico monastero adibito a prigione dura per reati politici e comuni. Come al solito, tutto ciò che riguarda la produzione artistica o l’attività politico-militare di Zachar Prilepin non passa sotto silenzio. Molti sono gli spunti che hanno dato adito ad accesi dibattiti. Il pubblico e i critici parlano già di due diverse Solovki, cioè quella del romanzo e quella della serie o, per meglio dire, quella di Prilepin e quella del regista Aleksandr Veledinskij. È molto interessante notare che sia il romanzo sia la serie sono il frutto di un lavoro indefesso che dura da circa 10 anni. A quel tempo Prilepin si era infatti recato a Solovki e con Veledinskij discuteva del fatto che avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura, o un racconto, sulla base del quale sarebbe stato girato un film. Alla fine, da un piccolo racconto è venuto fuori un romanzo di circa 800 pagine (tradotto e edito in italiano da Voland) e questa serie televisiva di otto stagioni.
Serie e romanzo, come hanno confermato i due diretti interessati, sono due opere d’arte differenti. Se nel romanzo ci sono 150 personaggi, di cui è dettagliatamente descritta in maniera tolstoiana l’intera biografia e psicologia, nella serie sono solo 50 e l’attenzione a ogni singola storia, anche per ragioni obbiettive, subisce un drastico ridimensionamento.
Un altro punto molto interessante consiste nel fatto che, a detta di Prilepin, nella serie Veledinskij rende la protagonista Galina (interpretata da Aleksandra Rebёnok) molto più rude e crudele rispetto al personaggio del romanzo. Questa modifica si realizza attraverso l’introduzione di molte nuove scene.
Le differenze quindi, a detta dei due diretti interessati, ci sono e sono innegabili. Ma ciò è lontano dal costituire un problema. La presa in considerazione di queste differenze è lontana dal testimoniare una mancanza o un difetto di queste produzioni artistiche. Molto saggiamente Prilepin, con la sua proverbiale e caustica lucidità, commenta questa condizione di fatto affermando “che io sono assolutamente convinto che ogni regista debba avere la sua visione delle cose. Perché se tu scrittore vuoi che le tue opere abbiano un normale adattamento cinematografico, prendi e inizia a girare da solo, come Vasilij Makarovič Šukšin. Se non sei capace, allora sta’ fermo e goditi quello che c’è”.
Un altro punto su cui critici, lettori e spettatori hanno prestato attenzione riguarda la fedeltà con la quale il romanzo e la serie narrano la storia dei fatti realmente accaduti a Solovki. Il beneficio che scaturisce dall’esistenza non solo del romanzo, ma anche della serie televisiva dall’indefesso lavoro decennale di Prilepin e Veledinskij è quello volgere l’attenzione del lettore-spettatore sulla storia di Solovki. Come osserva lo stesso Prilepin “la storia di Solovki e in generale la nostra storia (cioè quella russa) è molto difficile”: affermare quindi che Solovki corrisponda all’Auschwitz sovietica e che l’Unione sovietica sia il male assoluto oppure, al contrario, affermare che l’Unione sovietica “ha fatto solo cose buone”, è molto banale e superficiale. Le cose, purtroppo o per fortuna, sono sempre molto più complesse. Ciò naturalmente non deve diventare un pretesto o una scusa per disconoscere le tragedie avvenute, anzi.
Infatti, Prilepin, con la sua freddezza analitica osserva che se da un lato Solovki non è paragonabile ad Auschwitz in quanto questa prigione non è stata pensata e costruita con l’obbiettivo di realizzare un genocidio di massa, dall’altro il trattamento riservato ai detenuti e le brutali esecuzioni sommarie non danno adito a nessun dubbio: le 800 pagine del suo romanzo ne danno un’esemplare dimostrazione.
Oltre al fatto che giustamente Veledinskij usa gli stessi dialoghi del romanzo creando altri filoni narrativi, cioè in un altro senso e con altre finalità, Prilepin fa notare che dal punto di vista strettamente storico, in otto serie, c’è solo un errore strettamente storiografico. Nella scena successiva alla fucilazione di alcuni condannati, i cadaveri vengono sotterrati con gli stivali ai piedi. Prilepin fa notare che a quell’epoca scarpe e stivali avevano un valore inestimabile. Per rendere l’idea lo scrittore ricorda che i più importanti esponenti della nomenklatura bolscevica godevano esclusivamente di un paio di scarpe e un giubbotto.
Al di là di mancanza “Obitel’” (Il monastero) è una serie che merita davvero di essere vista.
Note
- Tutte le traduzioni dal russo sono dell’autore di questo articolo.