Andrea Nicastro scrive per il Corriere della Sera come inviato, simpatico modo di vivere altrove, pur avendo casa e famiglia. E’ uno dei rari colleghi a cercare ancora di praticare il meglio del giornalismo, mestiere invece praticamente estinto – come professione pensante – da quando la Guerra fredda è finita, trascinando nell’inutilità il gigantesco Ministero della Propaganda, detto “libertà di stampa”. Nell’età dell’oro dei confronti ideologici, la burocrazia ministeriale era istruita per manipolare sia destra, sia sinistra, ma era anche costretta a foraggiare i migliori. Oggi non c’è né libertà, né stampa. Del giornalismo resta solo il marketing.
Non che tutto fosse rose nel ‘900, ma l’esistenza del blocco comunista consentiva – a chi non vi apparteneva – opportunità di lavoro di cui oggi si è perso il ricordo. E quasi nessuno pareva accorgersene, se nell’estate-autunno 1989 illusi e imprevidenti redattori entravano nell’ufficio di Indro Montanelli, al Giornale, per rallegrarlo con l’implosione del patto di Varsavia. Invece lui si rabbuiava. Senza comunismo, l’anticomunismo a che cosa serve? Ciao, destre! Quanto a sinistra ed estrema sinistra sono ridotte a un magma anarchico. Hanno mai vinto qualcosa gli anarchici?
Affermatosi dalla fine degli anni ’90 in poi, quando si cominciava a capire che la Terza guerra mondiale, alias Guerra fredda, l’avevano vinta gli Usa e la Germania, ma che la pace la stava vincendo la Cina, Nicastro ha dovuto raccontare quindi ben altre guerre, le più ipocrite: quelle neo-coloniali. Già l’attributo era sospetto per alcuni. In certi quotidiani moderati emergevano i nostalgici del colonialismo, più di quanti se ne immaginassero. Ma il peggio toccava a chi, anche doveva coniare un lessico per far digerire al lettore progressista formule come “guerre per la democrazia”, “interventismo umanitario”, “effetti collaterali”. Un televisionista del Tg5 annunciava nel 2003 un concetto strategico tutto suo: “Aerei Usa aggrediti dalla contraerea irachena”.
Tanti giornalisti si piegarono all’idiozia. Alcuni no. A quel punto il problema era dei redattori incaricati di confezionare quegli articoli tenendo conto che, dicendo la verità, smentivano la propaganda. Così titolo, sommario e ’”occhiello” (la riga sopra il titolo) dovevano ignorare o eludere la sostanza del testo, che però restava sostanzialmente integro. Non che il titolo evasivo fosse malvagio; l’articolo veridico poteva uscire proprio perché depotenziato.
Per l’essere Nicastro visibilmente bravo, ero andato ad ascoltarlo in una parrocchia milanese. Io non sono praticante e poi Nicastro non predica. Però quella volta presentava un suo libro: Nassiriya. Bugie tra pace e guerra (Editori Riuniti, 2006). La serata fu lunga, lasciai il biglietto da visita. Lo sventurato rispose…
Il giornalista serio deve scrivere anche se non gli va, ma non può scrivere tutto, in nessun giornale. Se gli arrivano inviti di una tv, ci va. La prima volta conta sulla “diretta”. Non la seconda volta: sa già che qualcuno l’interromperà, gli coprirà la voce o lo pizzicherà nella schiena per farlo tacere. Come il giovanotto aitante in una casa dove c’è una figlia da maritare, il giornalista serio viene invitato ovunque, ma per lo più una volta sola. Perciò anche il sotterraneo della parrocchia per lui si rivela un angolo di libertà. Dopo, gli resta solo un giardino pubblico per dire la sua.
Il giornalista ingrigisce nei capelli e migliora nello stile. Oltre che bravo, diventa “autorevole”. Dei vecchi articoli potrebbe fare nuovi libri. Nicastro però sa che il respiro dei capitoli è più ampio di quello degli articoli. Così dai ricordi di una vita da inviato trae una pièce e la recita a teatro. Da essa trae a sua volta un libro: Gli Altri siamo noi. Perché tradire la democrazia scatena il Jihad (Rubbettino, pp. 170, euro 13).
Ecco un episodio de Gli Altri. Risale alla Cecenia del 1999. Un islamista al volante del fuoristrada lo chiama “Kafir”, infedele. Non è un complimento. Il Kalashnikov dell’islamista oscilla coi movimenti del fuoristrada e la canna si orienta verso la testa del passeggero, Nicastro medesimo, che gradirebbe dargli un’angolazione più rassicurante. Già vede il suo cervello tappezzare i finestrini e il parabrezza… L’islamista, che è votato alla morte, non ne è edificato. Oriana Fallaci avrebbe raccontato l’episodio in chiave di superiorità dell’Occidente. Nicastro no: “Gli infedeli, cioè noi, abbiamo paura di morire per una ‘sicura’ [di un AK-47 – Ndr] che non funziona, ma anche per un’infezione. Abbiamo fatto sparire la morte dal nostro orizzonte. Siamo disinfettati e protetti. La nostra auto-rappresentazione è ribadita nelle ‘note di linguaggio’ distribuite prima di ogni missione ai portavoce dei contingenti militari all’estero”.
Agli occhi dei Paesi neo-colonizzati, non c’è differenza tra civili e militari del Paese neo-colonizzatore. La democrazia fa condividere le loro responsabilità. Subito dopo la fine della Guerra fredda, quando ci si sarebbe attesi un lungo periodo di pace vera, Stati Uniti ed Europa, governanti e governati, sono stati complici nell’embargo degli anni ’90? La miglior sintesi di quell’orrore è in un film di Hollywood: “Avete fatto morire centinaia di migliaia di bambini iracheni per pagare un dollaro in meno a vostra moglie il pieno di benzina!” (Air Force One di Wolfgang Petersen, 1997).
Responsabilità hanno anche i giornalisti. Ma non sono tutti uguali. Sul Corriere Oriana Fallaci esasperava dal settembre 2001 il progressismo-occidentalismo. Tanto belli erano stati i suoi libri di trentenne sul Secondo sesso, tanto brutti erano quelli di ottantenne sul Terzo mondo, spingendo Giuliano Ferrara a chiedermi di replicarle sul Foglio. Partendo da I dannati della terra di Frantz Fanon, prefato da Jean-Paul Sartre (Einaudi, 1961), rammentai – a lei che nel 1975 aveva pubblicato Lettera a un bambino mai nato – come l’Occidente perdesse (e perda tuttora) di notte le battaglie che, come a Gaza, vince o dice di vincere di giorno.
Una tendenza demografica che oggi pare quasi irreversibile anche dove, come in Italia, come in ogni Paese povero, il numero è stato potenza, secondo il dettato di Richard Korherr e Oswald Spengler. Vorrei sbagliarmi, almeno per i bambini che, diversamente da quello della Fallaci, sono nati e felicemente cresciuti. Come il mio e come quelli di Nicastro.