Pubblichiamo su concessione dell’autore Mauro Mazza un brano del romanzo “Diario dell’ultima notte“, La Lepre Edizioni, 2021, dedicato al conflitto tra Benito Mussolini e Galeazzo Ciano. Sul Foglio ne ha scritto Giampiero Mughini: ““Quella notte di luglio del 1943 – scrive lo scrittore siciliano a proposito del voto contro Mussolini del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 – Ciano s’ era giocato tutto. Si separava da Mussolini, lui che per un momento era apparso come il suo naturale erede politico, senza avere nulla in cambio. Era anzi divenuto uno degli uomini più odiati d’Italia, odiato dagli avversari del fascismo perché ne aveva avuto enormi vantaggi di carriera, odiato dai residuali sostenitori del fascismo perché accusato di aver pugnalato alle spalle il padre di sua moglie”.
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Nello stanzino ci tornai una mattina. Era un venerdì, dovevano con- segnare i mobili per il mio studio, avevano promesso che nella stessa giornata sarebbero riusciti anche a montare la libreria: due pareti nella stanza e scaffali lungo il corridoio. Me li sarei fatti bastare, avevo calcolato quattro-cinquecento volumi in tutto, il resto dei libri sarebbe rimasto in città a stipare due stanze e, in doppia fila, anche le pareti del grande garage. I lavori in casa erano ultimati, o quasi. Li aveva seguiti mia moglie, attenta e precisa. Non a caso, ma solo all’inizio, il titolare preferiva parlare con me, sempre accomodante e distratto, prima di comprendere che stava perdendo tempo e che, quindi, per non ripetere lo stesso intervento almeno due volte, gli conveniva concordare il da farsi direttamente con lei. Lo stanzino in fondo al corridoio era
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polveroso, ma non troppo. I ritagli erano ordinati per argomenti e rac- colti in fascicoli, una decina in tutto. Questioni storiche, decisamente monotematiche, care a un vecchio fascista qual era stato di sicuro il capofamiglia: Storia della Seconda Guerra, Benito Mussolini, Re- pubblica Sociale Italiana… Un incartamento mi incuriosì: Partigia- ni. All’interno ritagli sul “triangolo della morte”, violenze impunite, alcune recensioni sui libri di Giorgio Pisanò e di Giampaolo Pansa. Accanto, una sull’altra, pile di riviste divise per annate. Anche quelle, decisamente di parte, sempre la stessa. Raccolte del Borghese, dello Specchio e del Candido. Arrivavano ai primi anni Settanta. In un angolo, incastrata fra pavimento e soffitto spiovente, una vecchia bici. Ancora più in là, notai una cassettina in legno, di quelle per la grappa o per il cognac di pregio. Speravo che la bottiglia fosse rimasta al suo posto, vergine. Invece no, la cassetta era leggera. La presi e lasciai lo stanzino. Mentre scendevo nella sala, con la sinistra tolsi un po’ di polvere dalla superficie. Mi sedetti sul divano nuovo di zecca facendo attenzione a non sporcarlo. La cassetta era chiusa da un gancio arrug- ginito. Dentro, altri ritagli sulla guerra mondiale, un paio di mostrine militari, una pallottola ossidata, lacci da scarpone e, sotto a quelle cianfrusaglie, un quaderno con la foderina nera e porosa, un tempo lucida. Le pagine, quasi tutte scritte, con le righe rosa pallido. Sulla copertina, una targhetta bianca col titolo: Diario dell’ultima notte. Verona, 11 gennaio 1944, di Antonio Basso.
Era del padre della signora Erminia, un suo diario scritto e ripo- sto nella cassetta di legno, pensai all’insaputa dei familiari. Presi a leggerlo. La grafia era ordinata, come quella di uno scolaro diligente. Poche cancellature, rare correzioni. Contenuto assolutamente prezioso. Era la cronaca, divisa in brevi capitoli, della notte che precedette la fucilazione di Galeazzo Ciano e di altri quattro detenuti nel carcere militare di Verona. Antonio era un giovane volontario della Guardia nazionale repubblicana, gli toccò il turno di ronda e quindi fu testi- mone di quell’evento drammatico. Lo stile era asciutto, il racconto emozionante. La mia lettura fu velocissima, a tratti febbrile. Una pagina via l’altra. Mi fece sobbalzare il trillo del campanello di casa,
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non l’avevo mai udito prima. Erano i facchini del mobilificio. Quasi un’ora era volata senza che me ne rendessi conto. Mentre gli operai lavoravano al piano di sopra, completai la lettura. Ero come stordito, senza fiato, confuso. A quelle vicende ero interessato da tempo, colti- vavo da anni l’idea di approfondire la storia e la parabola drammatica di Ciano, genero di Mussolini, dagli altari di una carriera politica di prima grandezza – con l’ambizione non segretissima di prendere, un domani, il posto del suocero – fino alla polvere di una fine terribile, condannato a morte per tradimento. Ed ecco che il destino mi offriva, anzi mi portava fin sotto gli occhi, quel documento straordinario. Non poteva che essere un segno, quasi un’investitura, sarebbe toccato a me il compito di rendere pubblico quel diario. Immediatamente, telefonai a mia moglie per dirle che gli operai stavano montando la libreria e le accennai del quaderno ritrovato. Non entrai nei particolari, ogni cosa a suo tempo. Ma con la figlia di Antonio Basso avevo il dovere di essere chiaro da subito. La chiamai. Arrivò in pochi minuti, la nipotina era all’asilo, aveva mezz’ora di tempo da dedicarmi. Diede un’occhiata ai lavori fatti in casa, li approvò soddisfatta. Poi le porsi il quaderno, lo sfogliò rapidamente. No, non l’aveva mai visto prima, mi disse che nemmeno la madre, morta quindici anni prima, appena sei mesi dopo il papà, doveva conoscerne l’esistenza.
Antonio aveva sempre mantenuto riserbo sulla sua esperienza nel- la Repubblica di Salò. Aveva raccontato di essere partito volontario a diciotto anni, si era da poco diplomato maestro. Era un ragazzo bravo, educato, attento e sensibile. Frequentava la chiesa e aveva una passione speciale per la lettura, libri in prestito alla biblioteca comuna- le, fascista come tutti in paese, fino alla caduta di Mussolini. I nonni, mi raccontava la signora Erminia, lavoravano la terra, vedevano in quell’unico figlio maschio la speranza di un futuro migliore, erano or- gogliosi di lui. Gli chiedevano consigli, su come far meglio le cose della burocrazia, andava lui in città, a sbrigarsela negli uffici, riordinava le carte, provvedeva al pagamento del dovuto coi fornitori di macchi- nari, sementi e mangimi. Lui era sempre pronto, affettuoso, ricono- scente. Si era diplomato con ottimi voti. Poi, nell’autunno del ’43,
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quando decise di partire volontario, i genitori sicuramente non furono contenti, ma non potevano trattenerlo. Antonio restò lontano da casa quasi due anni. Quando fece ritorno – alla signora Erminia glielo aveva raccontato la nonna – papà Antonio era smagrito e triste. Ma vivo per fortuna e, per grazia di Dio, finalmente a casa. Di cosa avesse fatto, di come fosse riuscito a salvarsi – pericoli, nascondigli, peripezie – non parlò mai con nessuno, almeno in famiglia. Pochi mesi dopo, si fidanzò con la mamma di Erminia, cominciò a insegnare nella minuscola scuola elementare di San Giuseppe. Nel giugno ’47 si sposò e tutta la sua vita seguì il corso normale: matrimonio, tre figli, insegnamento per quarant’anni, fino alla pensione, poi la malattia che non perdona e l’ultimo tratto di vita, con alcuni ricoveri in ospedale ma la consolazione, infine, di morire nel suo letto, in quella casa. Ermi- nia sottolineò con un certo orgoglio che quasi tutti i nati in paese, dal dopoguerra alla fine del secolo, lo avevano avuto come maestro; e gli avevano voluto bene. Ricordò commossa che al suo funerale in chiesa c’era tutto il paese e tanti occhi erano lucidi di pianto.
Pensai alle riviste nello stanzino, tutte rigorosamente di destra. Le chiesi se Antonio si fosse mai impegnato in politica. No, nessuna tes- sera di partito. Ma in casa, di tanto in tanto, guardando il telegiornale, faceva qualche commento sulle cose politiche. Erminia rammentava che anche con gli amici, quando lei lo raggiungeva in piazza per farsi comprare un dolce o le caramelle, lo trovava a discutere di politica, così almeno sembrava alle sue orecchie di bambina. Ogni mattina compra- va il giornale, lo leggeva nel pomeriggio dopo la scuola, il postino con- segnava in casa alcune riviste che il padre conservava nel suo stanzino. Mi chiese di poter leggere con calma il diario. Certamente, risposi, quel quaderno era comunque suo. «Le ho telefonato subito proprio per dirle della mia scoperta. Però…».Aggiunsi che a me sarebbe piaciuto aver- ne una copia per studiarlo, probabilmente sarebbe stato bello e giusto pubblicarlo, far conoscere la testimonianza di Antonio su quella dram- matica vicenda storica. Erminia non aveva problemi, anzi ne sarebbe stata contenta. Mi chiese soltanto un po’ di tempo, per riflettere bene. Non me lo disse, ma di sicuro intendeva chiedere un parere alla figlia.
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Mi telefonò due giorni dopo: «Le riporterò il quaderno. Lo può pubblicare se crede, sarebbe una cosa bella per mio padre e per la mia famiglia». Ero soddisfatto. Quella storia mi era venuta incontro per essere raccontata, proprio come la casa del paesino sul fiume, che avevo scelto senza esitazioni dopo averne viste almeno altre dieci, in quattro diversi borghi della Bassa Friulana. La vita mi aveva parlato. E io avevo saputo ascoltarla.
Da allora, per molti mesi, Antonio Basso ha occupato una parte importante delle mie giornate. Le letture su quella stagione terribile della sciagurata guerra civile si sono fatte studio metodico, impegno quotidiano. L’editore mi incoraggiò nel lavoro, raccomandando soprat- tutto di conciliare verità storica e racconto in forma di romanzo. Il quaderno di Antonio mi avrebbe aiutato a tenere il filo ben teso, il suo diario avrebbe illuminato quella notte. Il resto toccava a me, avrei scritto di quello strano incontro tra un destino tragico che si andava compiendo e il ricordo del giovane testimone che ne scrutava le pieghe, coi suoi appunti partecipi, carichi d’emozione. Avrei provato a capire – e a dire – non soltanto che cosa accadde in quei sette mesi, ma come e perché andò in quel modo.
Mi parve giusto alternare alle pagine del quaderno di Antonio, scandito dal trascorrere delle ore, il racconto delle vicende storiche di quei mesi, dal Gran Consiglio di Palazzo Venezia al poligono di tiro di Verona, teatro dell’esecuzione. Avrei provato a cogliere momenti di verità negli animi dei protagonisti, ricostruendo una vicenda che per Galeazzo Ciano, non ancora quarantenne, sancì la fine; e tra i due Mussolini, Edda e Benito, provocò una ferita sanguinosa e feroce, probabilmente inevitabile.
Il tribunale della storia stabilisce vincitori e vinti. Ma sul caso Cia- no, a me sembrava avesse evitato d’emettere la sua sentenza forse per mancanza di convincenti difensori. Il conte di Cortellazzo, il genero di regime, l’aspirante duce, il ministro firmatario del patto scellerato con Hitler, uno dei congiurati del 25 luglio ’43… Nel giudizio della storia, lui non avrebbe mai beneficiato di amnistie o di attenuanti, seb- bene avesse pagato il prezzo più alto. A differenza di altri – dapprima
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fuggiaschi infine legittimati e quasi redenti –, Ciano avrebbe subìto an- che preclusioni e ostracismi postumi. Per i fascisti, sarebbe rimasto co- munque il traditore per eccellenza, giustamente mandato a morte. Per gli antifascisti, sarebbe stato un gerarca colpevole delle nefandezze del regime che non potevano essere cancellate dal suo tardivo ripensamento nella notte del 25 luglio. Posizioni irriducibili; altrettante condanne senza appello. La sua vicenda resta il simbolo di un passaggio decisivo. Sulla scacchiera della storia, le vite degli attori protagonisti sembrano pedine impotenti, in balìa di un destino tiranno che decide, a sua discrezione, di salvarle o travolgerle. Accade così, soprattutto quando quello stesso destino viene sospinto da una folata di vento gelido, da un’onda impetuosa, da una bufera cattiva.