A volte, ferite mai davvero rimarginate riaffiorano nella mente per caso, spesso sollecitate da un apparente banale ricordo: l’abbandono di un gatto. Eccezionalmente, Murakami, in “Abbandonare un gatto” (Einaudi, 2020), parla della sua famiglia, di quel lessico familiare fatto non soltanto di parole, ma anche di rituali, silenzi, rivelazioni, smarrimenti e «riconciliazione» (p. 63). Tutto è permeato dall’esperienza della guerra. Fulcro del racconto è però la figura del padre dello scrittore, e il rapporto che i due (non) instaurano nel corso degli anni. Tra le particolarità di questo memoir vi è la traduzione in immagini della narrazione, con le illustrazioni di Mario Ponzi.
«Un giorno io e lui andammo in bicicletta fino alla spiaggia per abbandonare un gatto; non un gattino: una femmina già cresciuta» (p. 3).
La gatta, tuttavia, fece ritorno a casa ben più in fretta di loro. Murakami, infatti, dopo una vita di lontananza emotiva, e poi anche fisica dal padre, “torna a casa” soltanto quando chi gli aveva donato la vita era ormai sul punto di salutarla. Lo scrittore, in poco più di 70 pagine, riesce al contempo anche a descrivere uno spaccato della storia del ‘900 giapponese ben preciso: quello delle guerre che hanno scosso il popolo nipponico per l’intero secolo. È un libro, questo, di parole taciute, a volte dette solo in parte e di aspettative genitoriali, forse, disattese. Ma è anche un invito a prender coscienza di quanto l’esistenza del singolo s’intrecci indissolubilmente con quella del proprio Paese.
«In altre parole, ognuno di noi è una delle innumerevoli, anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura.» (p. 72)
*Abbandonare un gatto di Murakami Haruki (pp. 76, euro 15, Einaudi)