Gli anniversari giocano brutti scherzi. Davanti allo specchio del tempo trascorso, l’età mostra spesso i segni esteriori dei fallimenti personali e di gruppo. Anche “il manifesto”, quotidiano orgogliosamente “comunista”, come si legge sulla testata, arrivato al giro di boa dei cinquant’anni, l’età della menopausa, non ne è stato immune, dati e date alla mano.
Tra l’immancabile ed un po’ scontato saluto “santino” del Presidente Mattarella (“stimolante punto di riferimento per chi voglia guardare alla interpretazione della realtà italiana e internazionale avendo a cuore la difesa dei lavoratori, la pace, la giustizia internazionale”: da cui si deduce che senza “il manifesto” non si può avere a cuore la difesa dei lavoratori, la pace, la giustizia internazionale) e qualche lacrimuccia – comprensibile anche per cuori ideologicamente d’acciaio – da parte di un ambiente largo che intorno alla testata ha costruito le sue fortunate carriere e le sue inossidabili giustificazioni esistenziali, l’occasione autocelebrativa ha avuto il suo apice nel rito laico della ristampa anastatica. Un rito che diventa però pericoloso, quando ad essere (ri)messi in piazza sono i passaggi di una vita complicata, segnata dai tracolli ideologici di una sinistra passata dalle aspettative rivoluzionarie degli Anni Settanta alla psicoanalisi di gruppo dei decenni seguenti.
Quanti dei ritratti e dei miti sbandierati, con orgoglio, agli inizi del percorso de “il manifesto”, reggono al trascorrere del tempo ? Non esiste la sfera di cristallo per immaginare il futuro. L’ambizione (arroganza ?) del “quotidiano comunista” e di una certa sinistra d’antan è stata però di possedere gli strumenti “oggettivi” (le “chiavi ideologiche”) per “predire” l’avvenire, attraverso i segni della contemporaneità: la classe operaia, Mao, il Vietnam rosso, la rivoluzione khomeinista…
L’album del decennio 1971-1979, un decennio “incandescente”, pubblicato in occasione del cinquantenario, offre una bella rassegna, in anastatica, dei “migliori anni” de “il manifesto”, anni duri e puri (e spudorati …) come la lotta dei “duecentomila della Fiat”, pronti a far saltare la controffensiva padronale e i piani del riformismo, sparata a tutta pagina sul numero uno, datato 28 aprile 1971.
A seguire lo stop and go delle verità sbagliate, sempre sbagliate, una volta messe al vaglio della Storia, degli avvenimenti seguenti, della dura realtà dei fatti. Qualche esempio tratto dalle pagine più significative del giornale: Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato dal tritolo a Segrate, vittima di “una provocazione che esige una vigilanza di massa” (in realtà vittima dei suoi deliri rivoluzionari); Calabresi assassinato, “nuovo episodio del complotto reazionario” (delitto poi rivelatosi essere maturato all’interno di Lotta Continua, grazie alla confessione di Leonardo Marino, ex militante dell’organizzazione extraparlamentare); la caduta di Saigon esaltata come una grande epopea per il “Vietnam libero e rosso” (appena un anno dopo il boat people, in fuga dal “paradiso” vietnamita, renderà palese l’autentica realtà del regime comunista di Hanoi); la morte di Mao Tse-tung, celebrato come un esempio “per affrontare la crisi di civiltà dell’’avanzato’ Occidente” (rivelatosi come il più grande assassino della Storia); la Cambogia sanguinaria dei khmer rossi assimilata alla Cecoslovacchia invasa dai sovietici; Teheran in giubilo, dopo la cacciata dello scià (con quali risultati è noto a tutti).
Dietro la sobrietà, il rigore, l’eleganza estetica della testata, esaltati come un segno distintivo, si sono, in realtà nascosti, gli abbagli epocali e le “grandi illusioni” di un mondo che, alla fine del decennio Ottanta sarà costretto (dopo la caduta dei miti del comunismo internazionale e l’emergere del capitalismo cinese) a fare i conti con i propri fallimenti, restando però sempre un passo … indietro.
Lo slogan “Cinquant’anni dalla parte del torto” – sbandierato come un’icona trasgressiva da “il manifesto” – alla prova dei fatti è tutt’altro che una provocazione. Così come un anticonformismo di facciata, del tutto organico al mainstream, ultimo vessillo di una sinistra che se la canta e se la suona convita di avere sempre ragione, anche quando ha torto. Smentendo così quanto scriveva Antonio Gramsci: “Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria”.
Se la “verità” è quella che “il manifesto” ha diffuso per un cinquantennio, la lezione gramsciana non sembra avere sortito – alla prova dei fatti – grandi risultati.