“La vita non mi ha mai interessato tanto quanto l’evasione dalla vita”. Questa citazione, dal sapore inconfutabilmente lovecraftiano – è tratta, infatti, da una lettera di Howard Phillips Lovecraft -, riassume perfettamente l’atmosfera generale dei racconti di Gianfranco de Turris appena pubblicati nell’antologia Qualcosa d’altro. Racconti 1986-2000 (Bietti, pp € 16). Giornalista di lungo corso, critico, saggista, curatore di collane editoriali, decano della fantascienza italiana, de Turris (gdt per gli amici) è un riservato ma rilevante protagonista della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Il suo primo racconto, come ci narra lui stesso in questo libro, fu pubblicato nel 1961 sulle pagine della rivista “Oltre il cielo”, a cui seguirono, nel corso degli anni, innumerevoli curatele, introduzioni e postfazioni, un numero incalcolabile di articoli e infinite altre attività culturali pubblicate su quotidiani e riviste o trasmesse alla radio, dove, per anni, fu redattore culturale del Giornale radio RAI. La sua attività di scrittore, invece, pur essendo comunque vasta, è più circoscritta, e mostra nel corso del tempo una originale maturazione, che giunge al termine con questa raccolta, dato che, con l’arrivo del nuovo millennio se n’è andata l’ispirazione. Che sia, come suggerisce l’Autore, l’avanzare inesorabile di un pessimismo totalizzante che, nel passaggio di millennio è diventato apocalittico, o, più semplicemente, l’esaurirsi -magari solo momentaneo- della vena creativa, tant’è.Peccato, perché il de Turris narratore non ha niente da invidiare alle affermate celebrità della narrativa fantastica italiana, come ad esempio Dino Buzzati o Guido Morselli, non a caso autori molto amati dal nostro.
In gran parte scritti in prima persona, i racconti di Qualcosa d’altro sono un efficace esempio, e un’inconfutabile conferma, di come il genere narrativo sbrigativamente etichettato come “fantastico” non debba appartenere per forza alla tradizione “gotica” anglofona, ma possa essere felicemente coniugato in “salsa italica”. Al posto dei cupi manieri normanni troviamo le luminose torri saracene che affollano le coste della penisola, invece della brughiera umida e nebbiosa il paesaggio solare è inondato di luce marina, e al putridume di umide celle arrugginite si oppone il profumo di selvatico della macchia mediterranea. Eppure, le storie non sono per questo meno spaventose. Il terrore evocato da questi racconti non appartiene a una realtà separata, ma è affatto quotidiano e nasce dalle situazioni più prevedibili e banali, che improvvisamente si rivelano essere, come recita il titolo, qualcosa d’altro, e di pauroso. Naturalmente, nelle pagine di narrativa si colgono le ascendenze dei numi tutelari dell’autore, come Julius Evola, Guido de Giorgio e gli altri esponenti del pensiero tradizionale, così come il pantheon di riferimento generale è quello delle divinità mostruose create da Lovecraft, che sovrintendono il Caos primordiale, pronto a ghermire chiunque si avventuri, volontariamente o per sbaglio, oltre la soglia della presunta realtà. Agli eroi dei racconti, che poi non sono poi tali, resta solo una possibilità di salvezza, quella di accettare il proprio destino e aggrapparsi alla propria forza di volontà, per dare un senso a ciò che senso non ha, e resistere così, con l’immaginazione, all’assurdità di vivere in un universo crudele e perverso.
Insomma, come recita la citazione di Paracelso scelta come epigrafe: “L’immagine guida la vita dell’uomo che se pensa il fuoco è il fuoco, è nel fuoco; se pensa alla guerra, causa la guerra. Tutto dipende dall’immaginare fortemente ciò che si vuole”.
E de Turris ha voluto davvero scrivere dei bellissimi racconti.